Sui confini di Eetruria e Tuscia – o tusce (sic), al plurale – non dovrebbero gravare troppe lectiones interpretative. vengono però spesso contratti, flessi o stiracchiati con disinvoltura tra attenuanti e imprecisioni: le prime riflettono la complessità di un patrimonio storico-geologico composito come quello devozionale e abitativo, le seconde non ne minano comunque la ricchezza di segni, presenze, passaggi e paesaggi. lasciamo la questione aleggiare e sagomiamo una precisa porzione nell’alto Lazio, disegnandoci dentro un’ellisse: ruota intorno a due fuochi – però liquidi, i laghi di bracciano e di vico – e un asse, la via francigena. Il risultato è un itinerario di cento chilometri, tutti dentro una qualche tuscia tra la maremma di terra e l’appennino della valle del Treja.
Partiamo da Sutri, per tre motivi più uno: livio la definì “porta d’Etruria”, è stata un giunto liminare con la terra dei falisci (ennesima cerniera, altri strati di storie) e qui il cammino d’oltralpe si sovrappone, varianti comprese, alla cassia. ai piedi del borgo, poi, s’apre un anfiteatro a pianta ellittica – sigillo sublime di questo percorso – che non si sa se vada attribuito agli etruschi (plausibile) o ai romani (probabile). E' però certo che sia stato scavato completamente nel tufo rosso a scorie nere che il vulcano di vico ha generato. sono tuttavia i vicini ambienti del mitreo – una teoria di concavità sature di riti sovrapposti, incisi e perduti – a interessarci. uno in particolare, la chiesa della madonna del parto. il minuscolo vestibolo ritrae san cristoforo, squaderna le vicende pugliesi di san michele arcangelo e raffigura la vergine tra santa dolcissima e san liberato. la stessa caratura di fede, ancora più raccolta e altrettanto potente, riverbera nelle tre navate, scandite da dieci pilastri.
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