Al Monastero Bose, dove lo spazio è comunità

di Enzo Bianchi

In origine era una cascina, cinquant'anni fa l'inizio del cammino ecumenico e monastico

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E' dall’inizio della mia ricerca di un luogo dove vivere la mia vocazione monastica cenobitica, nell’ormai lontano 1965, che sovente sento risuonare attorno a me – e a volte anche dentro di me – una domanda: «perché non avete, non ho, non abbiamo cercato un monastero in disuso cui ridare vita? perché vi siete insediati in un gruppetto di cascine abbandonate?». Rispondere a questa domanda oggi, cinquant’anni dopo l’inizio della vita comune a bose e vent’anni dopo la costruzione della nuova chiesa monastica, significa riprendere per mano la storia della comunità e il suo cammino nella compagnia degli uomini.

Sì, non è un caso se la nostra vita comune si svolge da sempre in case normali e non in un edificio monastico magari antico, restaurato e rinnovato. quando scelsi bose come luogo in cui stabilirmi, il monastero semplice e attuale che avevo in mente – nel solco della grande tradizione monastica e nel soffio del concilio vaticano II – difficilmente avrebbe potuto prendere corpo in case sontuose e grandi. Desideravo una vita monastica segnata dalla dinamica del provvisorio, e quindi occorrevano edifici e spazi che non portassero il segno del definitivo, dell’inamovibile; desideravo una vita monastica di cenobiti attraversata anche dalla dimensione della solitudine, e per questo occorrevano luoghi sufficientemente indipendenti e tuttavia convergenti verso spazi comuni; desideravo una vita monastica povera ma accogliente, con luoghi a dimensione fraterna, contrassegnati dalla bellezza e dell’armonia piuttosto che dalla solennità.

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