La prima volta che qualcuno mi ha raccontato di essere sopravvissuto a un genocidio, eravamo in una mensa universitaria in germania. anzi no. la prima volta ero in terza o quarta elementare. una mia compagna di classe era jugoslava. Luisa ci raccontava di telefonate interrotte con suo nonno a belgrado. Ci raccontava di boati, rumori tondi e pieni; rumori così vivi e così morti, così forti da lacerare lo spazio dove abitiamo, e tutte le cose che contiene: il telefono, la casa del nonno, il mondo intero; dei rumori così forti da strappare la pellicola di gas che circonda la terra e farla rotolare via nel nero immobile dell’universo, dove finalmente trovare silenzio, e rimanere solo con il suono del proprio respiro lento. Ci raccontava di morti che non riuscivamo a capire. Era impossibile capire. a nove anni manifestavo contro la guerra in jugoslavia. lo facevo per il nonno della mia compagna di classe, per il suo telefono, e la sua casa; che non c’era già più.
Quella sera in germania ho rivissuto quello stesso dolore e ricerca di silenzio, di fine del mondo. l’ho rivisto nello sguardo lontano di charles. I suoi occhi si sono colorati del verde della foresta dove si è nascosto per mesi da ragazzino. la sua bocca si è seccata al ricordo delle gocce di acqua piovana rubate alle piante per poter bere. Il fiato, il respiro, il sangue che scorre nelle vene, il cuore, tutto ciò che ci dà vita, ha rallentato, è divenuto il più silenzioso possibile, per non farsi trovare; come un gatto che ha paura della tempesta e si nasconde sotto il divano. Il mio stomaco si è contorto al passaggio di un cadavere nel fiume dove charles mi ha portato a lavarmi e dissetarmi, venticinque anni fa in Ruanda. Ma di cadaveri ce n’erano tanti, ovunque. La polvere non volava più nelle strade di terra battuta dei villaggi. La polvere era bagnata di saliva, sangue, lacrime, feci. Pesante, la polvere si mescolava ai cadaveri a terra.
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