L’amore di Catania per sant'Agata

di Roberto Copello

Ogni anno a febbraio per tre giorni e tre notti incandescenti il popolo della città etnea celebra la sua “santuzza”

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«Cittadini / cittadini / semu / tutti / devoti tutti?». più che una domanda, quella che ogni capocoro urla con voce strozzata al suo gruppo di fedeli è un’affermazione. e infatti, nel clima di composta esaltazione con cui è vissuta la festa di Sant’agata, non ammette risposta negativa. «cettu... cettu! evviva sant’aita!», replicano i devoti, assorti e serissimi nel loro “saccu” bianco, la veste da penitente completata da berretto nero (‘a scuzzetta), cordone in vita, guanti bianchi, fazzoletto da agitare, coccarda della “Santuzza” sul cuore. «cettu... cettu!». e poi si ricomincia.

Lasciamo ai linguisti di dissertare se quel cettu sia o no un’abbreviata storpiatura di “cittadini”: non una risposta, dunque, ma l’incitare i presenti a unirsi al culto agatino. e lasciamo agli antropologi di indagare se vi siano retaggi paganeggianti nell’esplosione di raptus fonatori e urli mistici, o nel rendere le strade un mare di fuoco ove sfrecciano pericolosamente enormi ceri accesi, pesanti come i devoti che li portano. In ogni caso, quello che avviene ogni anno a catania, dall’offerta della cera del 3 febbraio al rientro in cattedrale all’alba del 6, è una sorta di miracolo, per come coagula fede religiosa, appartenenza, radici, identità collettiva e impegno individuale.

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