Gran teatro l’ebbe a chiamare il suo innamoratissimo testori, maestro della mia giovinezza che mi accolse, mi maledisse, mi riaccolse. due fuochi non possono che fare così, se li unisce un più vasto incendio, un più misterioso teatro. E di quell’incendio di bellezza, arcaica tenerezza, di trattenuta violenza e delicatezza, che nel teatro architettato dal suo amato gaudenzio e a cui pose mano tra gli altri l’altro suo amore tanzio, testori s’era nutrito in anni di passeggiate e studi, di scritti rivelatori, contro la critica “innamorata della sacra polvere archiviale”, di intuizioni in un lavoro che intraprese per indicazione di longhi e che avrebbe segnato fino alle ultime fibre della sua poesia e teatro e narrazione coeva e successiva.
Ne scrisse in saggi rimasti sospesi tra poema e monografia – con copiosa messe di dati e talune scoperte. e a quei luoghi a cui mi sono avvicinato venendo dalla mia romagna e dalla matrigna bologna – abitata dalle torsioni ora più morbide dei mortori di mazzoni ora più estreme di quel niccolò dell’arca che, a sentir testori, era “grande, forse troppo aristocratico”, mi si è piantato negli occhi e nelle vene senza uscire più, con il suo sale di pianto adriatico –, venendo, dicevo, a quel monte più volte, mi trovavo dinanzi a quella spoglia e spudorata bellezza alpestre. E ne ho sempre sentito, non solo per l’ombra del geniale maestro dagli occhi celesti, un richiamo forte.
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