«Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’oppressione, perché, vedendo i perfidi, taci…?». Così il profeta abacuc (1,13) formulava la domanda di ogni credente che vede trionfare il male. se dio è onnisciente e onnipotente, se anche lui vede quanto vediamo noi, perché non reagisce, perché non punisce? La questione teorica dello sguardo divino s’incrocia, cioè, con la realtà sofferta dello sguardo umano, suscitando perplessità. «perché mi fai vedere l’iniquità» chiede ancora abacuc «e resti spettatore dell’oppressione?» (ab 1,3). Dio allora finalmente risponde, dando al profeta «una visione che attesta un termine, [che] parla di una scadenza e non mente», e ammonisce: «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (ab 2,3). Questo atteso termine – questa scadenza verace – fu l’uomo gesù, in cui dio smentì per sempre quanti lo ritenevano un mero spettatore. perché nella passione e morte del suo figlio, dio ha affrontato di persona l’iniquità, facendosi carico dell’oppressione subita dagli uomini.
Com’era allora lo sguardo di gesù? quali messaggi trasmetteva? che impatto aveva su chi lo incontrava? a questi interrogativi gli artisti hanno risposto in vari modi. per molti secoli – e ancor oggi nella tradizione orientale – hanno attribuito al salvatore «gli occhi fiammeggiati come fuoco» di cui parla l’apocalisse (2,18), immaginando l’implacabile sguardo di «colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini» e che li giudica (2,23).
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