L’arte della Bibbia

di Gianfranco Ravasi

Il precetto antidolatrico getta un sospetto sulle immagini Ma se ben osservati i testi rivelano un fiorire di meraviglie, espressioni del culto e dello splendore

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«Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra». Questo gelido precetto del Decalogo (Es 20,4) appare a prima vista come una terribile censura religiosa nei confronti della libertà dell’arte. In realtà è chiaro che la sua finalità è di indole prettamente cultica: non per nulla si parla di “idolo” e subito dopo si aggiunge il divieto di “prostrarsi davanti a essi e di servirli”. Similmente nel Deuteronomio si legge questa maledizione: «Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d’artefice e la pone in un luogo occulto» (27,15).
Ora, l’espressione “abominio per il Signore” è destinata nel linguaggio biblico a bollare l’idolo, tant’è vero che nella letteratura apocalittica, a partire dal profeta Daniele, “l’abominio della desolazione” è quasi certamente la statua imperiale insediata dai siro-ellenisti nel tempio di Gerusalemme. La scena che segue di pochi capitoli il Decalogo è emblematica: il vitello d’oro − in realtà un torello, simbolo di fecondità, secondo la concezione dei culti della fertilità praticati dai Cananei, popolo indigeno della Terra promessa − diventa il segno supremo dell’idolatria, anche se nell’intenzione di Aronne e dei suoi accoliti doveva essere solo una rappresentazione della potenza vitale del Signore o forse soltanto il suo trono terreno (Es 32)

 

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