Suggestiva è la definizione dell’uomo coniata dal Salmo 39, che è una stupenda elegia sulla fragilità dell’esistenza umana: «Come ombra è l’uomo che passa […] Io sono un forestiero davanti a te, un viandante come tutti i miei padri» (7.13). E l’orante del Salmo 119 ripete di essere «un forestiero sulla terra» (19). È il vagare da un paradiso perduto, come ci ricorda la Genesi: «Il Signore Dio scacciò l’uomo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (3,23). È un camminare segnato dal rimorso per la colpa, come accade a Caino: «Sarò ramingo e fuggiasco sulla terra» (4,14). Lo stesso lessico del peccato nell’Antico Testamento suppone un “deviare”, un andare fuori pista (het, ‘awon), mentre la conversione sarà un “ritornare” (shub) sulla retta via.
Eppure, anche in questa specie di tragitto deforme e deviato vigila la presenza amorosa di Dio. «Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (4,15). «I passi del mio vagabondare – canta il Salmo 56,9 – tu li hai contati; le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse registrate nel tuo libro?».
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