Da un uomo stremato sale la lode. Chi parla veramente nel suo Cantico? Quale voce in un corpo che sta diventando terra, ombra? Cosa, chi ha visto questo “triste e gioioso”, quale “amore lontano” sta ammirando? Il primo paradosso del Cantico – testo paradossale, perciò sfuggente – sta nell’essere un canto di lode sulle labbra di un uomo che avrebbe avuto mille motivi per alzare un lamento. Da che ammirazione viene, da che amore lontano intravisto, insomma da dove, incendiandosi su quelle labbra secche, allodola ancora in volo?
Una lode all’“Altissimu”, al precipizio dell’Essere, da lui quasi niente, lui un minore, un piccolino lui, Francesco. Il figlio della “francesca” che aveva cambiato vita, stato, abiti, e in carcere aveva conosciuto i precipizi dell’anima, dopo il tentativo di diventare “nobile cavaliere”. Ma era sorta in quelle ombrose galere, l’Ombra dell’“Altissimu”. La sua impronta in un’anima inquieta. In quelle ombre, forse Francesco avrà sentito risuonare qualche canzone o verso mormoratogli dalla madre. Forse quelle celebri di Jaufré Rudel, il poeta poi morto crociato in Terra Santa? “Mai d’amore io godrò se non godo / di questo amor lontano...”. Paradossalmente, l’amante è “triste e gioioso”, cioè nella condizione dell’anima cristiana che ha nostalgia di Dio ma vive con letizia per la Sua presenza nel mondo. Francesco si offrì al medesimo “amor lontano” senza il quale “mai d’amor godrò”, come dice Rudel. Segno e allegoria di Dio da amare più di ogni cosa e in ogni cosa, e dunque ha “sposato” la Povertà. Che non è l’equivalente della miseria, ma la consapevolezza che tutto – tutto! non solo le stelle e le acque, ma anche la tua medesima carne e ciò che ne nasce – è di un Altro.
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