In data we trust

di Alessandro Zaccuri

Oltrepassate le profezie del cyberpunk, oggi il dato rivendica uno statuto mistico. Succede perché ci fidiamo del dato. Succede perché nel dato abbiamo fede

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Lo store Apple The Exchange TRX, a Kuala Lumpur / Nigel Young / Foster + Partners

Primo dato da acquisire: i dati non sono un’invenzione del digitale. Esistono da sempre, al punto che l’intera storia della cultura può essere descritta come un processo data driven. In Mesopotamia, per esempio, l’invenzione della scrittura viene incontro a esigenze di tipo commerciale, consentendo di allestire inventari di magazzino e di certificare la correttezza delle transazioni. Più tardi, l’Umanesimo si afferma anche grazie a quell’insieme di pratiche di accertamento del dato che va sotto il nome di filologia. Da questo punto di vista, l’edizione critica del Nuovo Testamento allestita nel 1516 da Erasmo da Rotterdam segna un cambiamento d’epoca non meno cospicuo di quello stabilito una trentina d’anni prima dalla Nascita di Venere di Sandro Botticelli. È un’evoluzione, non una contrapposizione: dall’alleanza tra numero e forma deriva l’archetipo leonardesco dell’Uomo Vitruviano ed è ancora Leonardo a fornire nel 1509 le illustrazioni per la prima edizione del De divina proportione di Luca Pacioli. I dati sono sempre stati ovunque, ma non si sono mai manifestati solo come numeri. I dati sono immagini, sono parole. In definitiva, sono pensiero. L’importante è capire di che pensiero si tratti.

In assenza di questa informazione – di questo dato – rischiamo di trovarci nella stessa situazione di Johnny Mnemonic, il protagonista dell’omonimo racconto pubblicato nel 1981 da William Gibson. L’apologo arrivò al cinema nel 1995 (trent’anni fa, cifra tonda), con Keanu Reeves nel ruolo principale. Di per sé non strepitoso, il film rimane significativo per più aspetti. Uno riguarda la carriera dell’attore, che grazie a questa escursione nel cyberpunk si preparò a diventare il Neo della saga di Matrix. Più in generale, risulta premonitore l’assunto della trama, che riprende con qualche licenza l’intuizione di Gibson. Il “mnemonico” Johnny è infatti un corriere di dati, che custodisce nella propria mente pacchetti di informazioni per lui inaccessibili. Trasporta conoscenza senza disporne, diventando così l’oggetto di negoziati più o meno loschi. Non per sottilizzare, ma già allora si ipotizzava che a interessarsi dei dati più preziosi fosse la criminalità organizzata, nella fattispecie la yakuza giapponese. Ancora una volta, i piani delle mafie non fanno altro che smascherare e pervertire tendenze già diffuse. Nel racconto Gibson lo spiegava con parole rimaste proverbiali: «Siamo un’economia fondata sull’informazione. Lo insegnano a scuola. Quello che non dicono è che è impossibile muoversi, vivere, operare a qualunque livello senza lasciare tracce, segni, frammenti di informazione apparentemente privi di significato. Frammenti che possono essere recuperati e amplificati…».

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