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Architetture e infinito, lo spazio senza limite

La grande architettura e il rapporto con il paesaggio rendono fisica l’esperienza di abitare l’infinito

​Maria Antonietta Crippa
In un colloquio d’indimenticabile intensità, per la pubblicazione di un suo libro con il quale eravamo alle prese anni fa, il filosofo Rosario Assunto affermò con forza l’essenziale coincidenza di limite e di illimitato, di finito e di infinito, nell’esperienza del nostro paragone con il mondo, così come ci è dato. Nel nostro rapporto con le “cose” che ci circondano e con il loro comporsi, in trame infinitamente varie per forme e colori – diceva – sta la possibilità di cogliere questa convergenza fattuale, di segno qualitativo, non quantitativo, che è grande mistero del mondo da interrogare in tutto, nel cielo stellato e nel più piccolo filo d’erba, per comprendersi come uomini destinati a una illimitata pienezza, della quale l’arte è figurazione, corpo, voce e suono. Assunto sapeva di essere accusato, per questa posizione presa in anni di maturità avanzata, di fuga in un vago misticismo romantico, ma era convinto dell’approdo di verità del proprio pensiero. Da parte mia, il suo argomentare sulla bellezza mi affascinava per l’immediato rimando, non alla spiritualità, ma alla concretezza materiale della realtà e dell’arte, in particolare al composto di natura e artificio che plasticamente definisce i luoghi che abitiamo.
Due erano i riferimenti delle nostre riflessioni: lo spazio chiuso che l’uomo cattura, costruendo architettura con sapienti articolazioni murarie, per renderla luogo del proprio vivere quotidiano e festivo abitandola; lo spazio aperto del paesaggio, che «a differenza degli spazi chiusi, ha sopra di sé il cielo, cioè lo spazio illimitato» e che, nella coscienza contemplante, non è rappresentazione ma apertura all’infinito, diceva Assunto. Esso è infatti il luogo nel quale chi vi sosta può avvertire, dentro la materiale finitezza di ciò che vede, un’indicibile e inimmaginabile infinità, che fa eco all’interiorità di ognuno di noi, finitezza abitata dal mistero infinito, in modo ben più diretto di quanto faccia l’architettura: non occorrono mediazioni, come gli effetti trompe-l’œil cui questa deve ricorrere con grandi affreschi per sfondare gli spessori murari, come accade ad esempio a Pompei o nelle ville palladiane, per citare due casi celebri. Non occorrono neppure luoghi esotici per quest’esperienza: nessuno meglio del ventunenne Giacomo Leopardi era riuscito a esprimerla, celebrando l’infinito dilatarsi della propria finitezza umana in cima a un colle a lui consueto.