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Benedetto, Francesco, Caterina, tre santi per una nuova Europa

Enzo Bianchi


«Vi fu un uomo di vita santa, Benedetto di nome e per grazia. Fin dai primi anni della sua vita possedeva un cuore maturo. Nato in provincia di Norcia da famiglia di elevata condizione sociale, fu mandato a Roma per dedicarsi agli studi umanistici. Ma tralasciata ben presto la formazione letteraria, abbandonata anche la sua casa con i beni paterni, desideroso di piacere a Dio solo, cercò il comportamento della santa vita monastica. Si ritirò dunque dal mondo, e da un’Italia devastata dalle invasioni barbariche, saggiamente ignorante e sapientemente incolto (scienter nescius et sapienter indoctus)». Con queste incisive parole papa Gregorio Magno, nei suoi Dialoghi (inizio del libro II) apre la biografia di san Benedetto. Nato verso il 480, Benedetto, dopo aver compiuto in gioventù la scelta di “ritirarsi dal mondo”, conobbe negli anni le diverse forme di vita monastica del suo tempo. Dopo un tentativo fallito di riformare un monastero esistente, tornò nella solitudine, e venne raggiunto ben presto da molti, che desideravano mettersi sotto la sua paternità spirituale. Nel 529 si trasferì con alcuni discepoli a Montecassino, per dare vita a una nuova forma di vita monastica. Per questo cenobio scrisse la sua Regola, testimonianza viva del suo grande discernimento e del suo senso della misura. La Regula Benedicti divenne nei secoli successivi quella fondamentale di tutto il monachesimo d’Occidente. Secondo un’antica tradizione, Benedetto morì il 21 marzo del 547.
Della sua travagliata biografia, segnata addirittura da tentativi di avvelenamento da parte di alcuni suoi monaci, mi piace ricordare solo due elementi. Dopo aver lasciato gli studi a Roma, inoltratosi tra i boschi, «in una grotta in un luogo deserto chiamato Subiaco» (Dialoghi II,1,3), Benedetto comincia a vivere una vita solitaria, per ben tre anni. Mentre si esercita alla preghiera e all’intimità con il Signore, nella solitudine, i mesi passano e Benedetto non si rende conto che è giunto il giorno di Pasqua. Il Signore dunque ispira a un monaco di nome Romano di andarlo a cercare. Preso con sé cibo degno della festa, costui si mette sulle tracce di Benedetto e, trovatolo, gli dice: «Alzati, e mangiamo insieme, perché oggi è Pasqua» (II,1,7).
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Antonio Musarra


«Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo».
Con queste parole, Francesco descrive nel Testamento la sua conversione, punto di partenza della sua avventura. Abbandonando l’agiatezza che ne contraddistingueva la famiglia d’origine, egli sceglie di camminare assieme ai poveri, e di condividerne lo stato di vita. Il motivo di tale cambiamento radicale non è esplicitato, benché possa essere ricercato, prima ancora che nell’aspirazione alla perfezione, nel comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”, oltre che in quegli stessi ideali cavallereschi che tanto aveva amato e ancora amava. All’inizio, insomma, fu la carità più che la ricerca della santità. E ciò, nonostante il suo orizzonte si allargasse sin da subito sino a contemplare il consiglio evangelico: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).
Francesco sceglie il lebbroso prima ancora che sé stesso, rivoluzionando la gerarchia di valori della società del tempo. Certo, il suo gesto – ancorché declinato in maniera tanto originale – non era isolato. L’aspirazione a mondarsi dal peccato – confluita, a cavallo tra Dodicesimo e Tredicesimo secolo, nell’inventio teologica del Purgatorio – costituiva, infatti, un tratto fondamentale della religiosità laicale del suo tempo, manifestandosi secondo forme di vita fluide e informali – forme di vita regularis sine regula, per essere precisi – riconducibili a due tendenze di fondo: la fuga mundi di eremiti, recluse, cellani e murate; l’apostolato caritativo di beghine, begardi, bizzocche e pinzochere.
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Anna Maria Cànopi


«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli…» (Mt 11,25). L’inno di giubilo di Gesù è stato scelto come brano evangelico per la festa di santa Caterina da Siena. Ed è ben giusto! Sì, ti rendiamo lode, Padre, perché nella tua benevolenza hai compiuto e rivelato grandi cose in questa “piccola” che si è lasciata totalmente invadere dalla potenza del tuo Spirito. Santa Caterina è davvero un “prodigio” della divina Sapienza. Non si può spiegare diversamente come una giovane donna illetterata – quasi non sapeva né leggere né scrivere – abbia potuto nella sua breve vita (è morta a soli trentatré anni) esprimere una dottrina spirituale tanto elevata e completa, con un linguaggio splendido e inconfondibile, sorprendente nella sua intensità e vivacità, proprio come si riscontra nei grandi mistici, che sono quasi sempre anche alti poeti.
Devo ammettere che proprio per questo, fin da giovanissima, ho molto ammirato santa Caterina e ho avuto verso di lei affetto preferenziale. La lettura dei suoi scritti mi ha profondamente segnata e accompagnata lungo gli anni. Posso affermare d’aver appreso da lei ad amare appassionatamente Cristo e la Chiesa. Ancor oggi mi trovo spesso ad aprire i suoi libri, in particolare le sue Lettere, per leggerne anche solo qualche pagina, come per incontrare una persona cara, e sempre ne ricevo nuova luce.
Ventiquattresima figlia del tintore Jacopo Benincasa e di monna Lapa, Caterina nacque nel 1347, nel cuore del XIV secolo, un’epoca segnata da grandi sconvolgimenti in Italia e in Europa, nella Chiesa e nella società: ovunque imperversavano guerre (Francia, Inghilterra, Germania…), minacce di invasioni, liti nelle città tra opposte fazioni, crisi nella Chiesa (si pensi anche solo all’esilio avignonese e al Grande Scisma). E il popolo soffriva, schiacciato sotto il peso di tanta oppressione, di grandi disuguaglianze, di gravi ingiustizie. In questo quadro già cupo, carestie, catastrofi naturali e frequenti epidemie seminavano ovunque disperazione e morte. Nell’anno in cui venne alla luce Caterina, iniziò a diffondersi la terribile peste – ricordata da Boccaccio nel suo Decamerone – che decimò la popolazione europea, e la stessa Siena subì gravissime perdite.
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