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Casentino, terra di meraviglia

A cavallo tra Toscana e Romagna, questi luoghi selvaggi sono custodi di memorie sante e dantesche. E di grandi piatti

​Franco Cardini

Dal punto di vista geografico il Casentino, che si presenta al visitatore come un complesso e pittoresco insieme di alture boscose e di vallate solcate dall’Arno nel suo alto corso e dai suoi affluenti, è in realtà un bacino compreso all’interno di una di quelle cinque “catene sfalsate, come quinte teatrali” (questa la definizione dell’Enciclopedia Europea) disposte da nordovest a sudest, che caratterizzano l’Appennino settentrionale: nell’ordine la Lunigiana, la Garfagnana, il Mugello, il Casentino stesso e la Valtiberina. Un territorio boscoso, di rocce tenere e friabili che danno luogo a frane spesso vistose e a pittoreschi calanchi. Si tratta di un’area ampia oltre 800 chilometri quadrati, “a conca”, che può considerarsi parte del cosiddetto “Appennino toscoemiliano” ma che, più propriamente, confina a est con la Romagna.
La “valle chiusa” del Casentino è limitata a nord dal monte Falterona; a ovest dalla catena del Pratomagno; a est dalle “alpi” di Serra e di Catenaia (tutte alture del sistema preappenninico occidentale), quindi la Romagna: a sudest dal fiume Chiassa, affluente di destra dell’Arno, fino alla confluenza con l’Arno stesso a nordovest di Arezzo. La popolazione dei suoi attuali dodici comuni, disseminati su un territorio diseguale tra pianura e alta collina, raggiunge quasi i 50.000 abitanti, per quanto soffra in questi anni, un po’ come tutta la penisola, di una catabasi demografica che minaccia di spopolare interi centri specie in altura. Tuttavia l’amenità dei paesaggi, la bellezza di paesi come Poppi, Bibbiena, Castel San Niccolò e Stia, la fama dei celebri santuari quali Camaldoli, la Verna e – sul limitare verso la Valdisieve da cui, a nordest, si accede al Mugello – Vallombrosa, hanno determinato in tempi recenti la crescita di un afflusso turistico che si è sostituito a un vecchio equilibrio economico-demografico, quello costituito fino al secondo anteguerra dall’uso borghese sette-novecentesco della “villeggiatura”. Le colture della vite e dell’olivo nonché, più in alto, l’abbondanza di funghi, frutti del sottobosco, noci e castagni, si alleano a un artigianato di alta qualità caratterizzato dalla lavorazione del legno e dalla produzione d’indumenti di una caratteristica lana a vivaci colori nella quale si sono distinte alcune manifatture dotate anche di vendita diretta - celebre il lanificio Rossi -, il che potrebbe condurre visitatori curiosi fino alla cittadina di Stia sul fiume Staggia con la sua caratteristica piazza in pendio circondata da portici. Da lì si arriva facilmente a un caratteristico fortilizio costituito praticamente da un unico immenso, imponente torrione: la “rocca di Porciano”, già dei conti Guidi, dove se avete fortuna l’amabilissima castellana potrà anche mostrarvi (ma attenzione: è cosa privata, non avete alcun diritto di accedervi senza l’invito dei proprietari) un meraviglioso museo enografico… dedicato ai native Americans, i “pellerossa della Prateria”. Vi chiederete che cosa c’entri: ma una valorosa etnia “indiana” aveva cresciuto  alcuni decenni fa un giovane americano che più tardi, arrivato da queste parti durante la Seconda guerra mondiale come ufficiale dell’esercito statunitense, restò talmente prigioniero della magia di questi luoghi da divenirne residente, collocandovi i suoi ricordi più cari.
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