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Diamanti e atlanti ad Anversa

Un giorno nella capitale delle Fiandre, dai vicoli del quartiere ebraico ai tesori del Museo Plantin-Moretus

​Laura Bosio

È attraverso  il quartiere ebraico che conosco Anversa per la prima volta, addentrandomi nelle sue vie strette poco dopo essere arrivata da Bruxelles, dove mi trovo per lavoro, alla stazione ferroviaria: la “cattedrale delle stazioni”, con i suoi livelli che si intersecano sotto la grande volta in vetro e ferro e fanno sgranare gli occhi in alto e in basso a godere di un gioco ingegneristico e architettonico unico. Cammino nella pioggia sottile, quasi vaporizzata, in cerca di un ristorante kosher che mi ha consigliato un amico ebreo. Tengo ad assecondarlo per affetto e soprattutto per rispetto della sua angoscia in questo momento, della sua disperazione, dello sgomento per la guerra, gli israeliani in pericolo e in lotta con il governo, i civili sterminati a Gaza, i profughi costretti ad ammassarsi a milioni in strisce di deserto prive di tutto.
Il locale è sobrio, ordinato, talmente autentico che i camerieri con la kippah parlano soltanto yiddish. Dietro il bancone una donna di mezza età, con la parrucca, si ingegna a descrivermi in inglese i piatti esposti, rendendoli più esotici. Scelgo verdure con una salsa gialla e un pasticcio rossastro di frutta e pasta frolla e ottengo ospitalità a uno dei tavoli comuni attorno ai quali stanno pranzando uomini e donne con grembiuli blu sopra i maglioni. Grembiuli da lavoro curiosamente lindi, come appena stirati. Qualcuno sorride, la maggior parte non si accorge di me o preferisce non vedermi. Il cibo è buono e sono grata all’amico che mi ha suggerito questo ingresso nella città. Un ebreo italiano laico che da molto prima della mostruosità del 7 ottobre e del massacro in corso a Gaza, Rafah e Al-Masawi sostiene la posizione più vanamente ripetuta: riconoscere due popoli e due democrazie o, come diceva Abraham Yehoshua alla fine della sua vita, sciogliere Israele e costruire un nuovo stato binazionale in dialogo tra forze laiche. Un’utopia, o una speranza di pace, che i miei compagni di tavolo, chiaramente ortodossi, forse condividono, se il mio amico mi ha spinta proprio qui.
Si finisce sempre per mangiare troppo in fretta quando si è soli, anche in questo ristorante dove mi sarei fermata ancora a guardare i visi, ad ascoltare i discorsi, fino a rendere i suoni, se non comprensibili, almeno un po’ familiari. Ma non ho più nulla nei piatti, e per soddisfare le mie fantasie oziose non devo occupare un posto che serve ad altri. Mi alzo dal tavolo, pago il modico conto alla donna che mi ha aiutata con l’inglese e mentre esco ben coperta dal piumino e dal cappello della pioggia sento alle spalle un coro di saluti che non mi sarei aspettata.
Le viette del quartiere, scivolose per la pioggerellina che non accenna a smettere, sono quelle tipiche di un ghetto antico e non è difficile immaginare che gli uomini e le donne in grembiule blu lavorino, con estrema precisione, nei piccoli negozi di tagliatori di diamanti riconoscibili ovunque. Alcuni hanno le saracinesche abbassate e l’aria dismessa, ai lati cartocci con cibo che qualche topo contende ai gatti e ai cani. Altri, pur oscurati da tende spesse o cartoni, sembrano invece in piena attività. Tutto contribuisce al senso di un commercio non certo povero, sappiamo che non lo è, quanto nascosto, secondo una tradizione secolare. Procedo, Google Maps alla mano, verso le strade più centrali, senza timore di perdermi nel silenzioso labirinto. Incrocio solo un paio di bambini che giocano a calcio con uno scarpone e si divertono a fare goal tra le mie gambe.
Man mano mi avvicino al centro, e al rumore conseguente, le botteghe lasciano spazio a negozi di ori e gemme pretenziosi, di qualità dubbia, turistica, mentre ai primi piani di palazzi che isolato dopo isolato diventano più moderni si cominciano a vedere alle finestre delle insegne nitide, dal carattere un po’ farmaceutico. Le silhouette dei diamanti al posto delle croci verdi contrastano con le figure dei trafficanti che lo stereotipo vuole avventurosi, alla Daniel Craig, nel gestire il commercio più lucroso e fiorente della città, diviso negli ultimi decenni con indiani, maroniti libanesi e armeni. Del resto, la prima borsa al mondo dedicata ai diamanti grezzi è stata fondata ad Anversa e pare che l’85% della fornitura mondiale sia quotata in questa città.
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