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Firenze, laboratorio vivodel restauro

L’Opificio delle pietre dure non è soltanto un centro d’eccellenza internazionale: nella sua storia si trovano passato presente e futuro della disciplina

​Marco Ciatti

L’Opifico delle Pietre Dure (Opd) rappresenta un importante caso di continuità, poiché affonda le sue due principali radici, che solo modernamente si sono congiunte fra loro, nella storia artistica di Firenze. Il nome stesso di “Opificio” fu assegnato nel secolo XIX dalla dinastia lorenese alla manifattura di corte, stabilita dal granduca Ferdinando I de’ Medici nel lontano 1588, nella quale l’arte più celebre era appunto quella del commesso di pietre dure, una preziosa sorta di tarsia figurativa eseguita con pietre dure e semipreziose. Con l’Unità d’Italia venne a mancare la corte per la quale produrre opere d’arte, quindi nell’ultima parte dell’Ottocento l’antico Opificio fu convertito dalla produzione alla conservazione, sfruttando così l’abilità e le competenze delle maestranze e contribuendo alle necessità di restauro nell’ambito del nuovo Stato italiano. A cavallo tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del Novecento furono i mosaici del Battistero di Firenze come anche quelli delle chiese di Ravenna a essere interessati da grandi campagne di restauro.
Ma l’amore per l’arte della dinastia medicea aveva fatto sì che nascesse anche una grande collezione di dipinti per la quale divenne costante la presenza di pittori-restauratori che ne curassero la manutenzione e, quando necessario, il restauro. Questo ruolo di “restauratori di Galleria” durò nei secoli sinché un giovane funzionario della Soprintendenza, Ugo Procacci, intorno al 1932 decise di riorganizzare l’attività in senso moderno e scientifico, costituendo sotto la sua direzione un vero e proprio “Gabinetto Restauri” dotato di mezzi e metodologie moderne. Tale laboratorio fu il protagonista di infiniti lavori che hanno contribuito anche alla conoscenza dell’arte del passato soprattutto con il recupero della pittura medievale, fronteggiando, inoltre, i due più terribili avvenimenti del secolo, per quel che attiene alla conservazione delle opere d’arte: la Seconda guerra mondiale e nel 1966 l’alluvione di Firenze.
Quest’ultimo episodio ha segnato un punto di svolta in quanto il nostro Paese e le istituzioni fiorentine seppero trasformare un’immane tragedia in una occasione di crescita e di avanzamento. Le strutture furono ampiamente potenziate, anche grazie agli aiuti internazionali, e nel 1975, nell’ambito della creazione del nuovo Ministero dei beni culturali voluto da Giovanni Spadolini, il Gabinetto restauri fu staccato dalla Soprintendenza fiorentina e unito all’antico Opificio, creando così un unico grande istituto nazionale di conservazione e restauro che affiancò i colleghi dell’Istituto Centrale di Roma, con compiti analoghi. Umberto Baldini fu il primo direttore del moderno Opd e gli conferì l’impostazione metodologica e la struttura interna ancor oggi in vigore, coniugando mirabilmente l’operatività e la ricerca, e allargando a tutti i generi artistici la stessa impostazione teorica e il medesimo approfondimento scientifico, in modo da conseguire una vera e propria unità di metodo in tutti i suoi reparti.
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