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Gli adoratori del Sole antichi e moderni

Viaggio nei culti solari e della luce, da Mithra a Baal ad Apollo fino al successo intercontinentale del manicheismo

​Franco Cardini


«Nell’anima, fin dalle sue prime origini, c’è stato un anelito alla luce e un impulso inestinguibile a uscire dalla primitiva oscurità. Quando giunge la notte profonda, ogni cosa assume un tono di cupa malinconia, di un’indicibile nostalgia della luce. È questo il sentimento che si manifesta negli occhi dei primitivi, e che può essere notato anche negli animali. Negli occhi di questi c’è una tristezza che non scopriremo mai se dipende dalla loro anima o se è un doloroso messaggio che ci si manifesta da quell’esistenza originaria. Questa è l’atmosfera dell’Africa, l’esperienza delle sue solitudini. È un mistero materno, l’oscurità primordiale. Ecco perché l’esperienza più sconvolgente per il negro è la nascita del sole al mattino. Il momento in cui la luce appare, è Dio. Quell’attimo apporta la salvezza. Credere che il sole sia Dio, significa perdere e dimenticare l’esperienza archetipa di quel momento. Dire: “Siamo contenti che la notte, durante la quale vagano gli spiriti, sia passata”, è già razionalizzare. In realtà grava sopra la terra un’oscurità diversa da quella naturale della notte: è la primeva notte psichica che per innumerevoli milioni di anni è stata ciò che è ancora oggi. L’anelito alla luce è l’anelito alla coscienza» (Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni e riflessioni).
 Il linguaggio di Jung in questo passo risente delle opinioni di matrice positivista proprie del suo tempo a proposito delle società cosiddette “primitive”; un linguaggio che oggi l’antropologia culturale e le altre scienze sociali ci portano a superare: non esistono società “primitive”, ma certo in quelle che definiamo “tradizionali” o “premoderne” la dicotomia luce-oscurità alla quale allude Jung resta attuale. In primo luogo è una constatazione fisica: la scomparsa del sole o della luna, come avviene durante le eclissi, era temuta da popolazioni diverse. Agli inizi del V secolo il vescovo Massimo di Torino scriveva, per avversarle in quanto superstiziose, delle cerimonie che si svolgevano nel corso delle eclissi di luna per garantire la ricomparsa dell’astro, o più che altro per manifestare l’attesa circa il corretto avvicendarsi dei cicli temporali: «Quando ho domandato cosa fosse tutto quel rumore, mi è stato risposto che le vostre grida prestavano soccorso alla luna in difficoltà, aiutata nella sua eclissi dalle vostre urla». (...)