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Gli sguardi di Ferdinando Scianna innamorato della vitascianna

Sessant’anni di fotografia, l’amicizia con Sciascia e Cartier-Bresson, l’immagine come racconto, il bianco e nero come lingua materna

​Giovanni Gazzaneo

Quanti volti, quanti luoghi, quanti gesti scorrono negli occhi di Ferdinando Scianna.
Dal 1960 ha scelto di raccontare con le immagini questo nostro mondo e questa nostra storia. Luci e ombre, ombre e luci. In quello straordinario e miserabile gioco che è la vita. Immagini di festa e di guerra, di gioia e di fame, di amori e di morte. Sempre affascinato dall’umana avventura, mai pago di quella curiosità che da ragazzo, a 17 anni, lo spinge a raccontare in bianco e nero quell’universo che è la Sicilia, per poi abbracciare il mondo. A testimoniarlo decine di libri e un milione di immagini, i reportage giornalistici, i suoi saggi di critico della fotografia. E ora la grande mostra di Palazzo Reale a Milano.
Da sessant’anni lei si esprime soprattutto attraverso le immagini. Perché ha scelto di fare il fotografo?  
 A 14 anni mio padre mi ha donato una piccola macchina fotografica. Era un bel giocattolo. Poi ho scoperto che con quel giocattolo potevo raccontare le cose che amavo e che detestavo. Una scoperta sconvolgente.
Lei dice che ha avuto molti maestri, che molto ha guardato e molto ha copiato… Ma chi sono i maestri che sente più vicini?
Piero della Francesca, Goya, tanti altri artisti. E tanti fotografi, a cominciare da Cartier-Bresson. Anche gli scrittori hanno influenzato, credo, la mia fotografia non meno delle immagini.
 Fondamentale nella sua vita è stato l’incontro con Leonardo Sciascia, e con lui, a 22 anni, ha realizzato il suo primo libro, “Feste religiose in Sicilia”. Cosa ha significato per il suo modo di guardare gli altri e il mondo conoscere  colui che per lei è stato «più di un amico, di un maestro, di un padre»?
Un magistero, un’amicizia incomparabile, un grande affetto. Un amico maestro, un angelo paterno. Un punto di riferimento etico ed estetico. Un mistero. Quando nel 1965 gli avevo mostrato tante delle immagini che poi avremmo pubblicato in “Feste religiose in Sicilia”, Sciascia mi disse che non avevano quella destinazione antropologica che io cercavo di dargli, forse per giustificare anche davanti a mio padre il mio fare fotografia e perché pensavo che avrebbero illustrato una mia tesi di antropologia culturale. Mi disse: «Non è la roba scientifica che a te interessa. A te interessa raccontare il mondo». Ecco, Sciascia mi ha fatto scoprire il senso del mio fare fotografia, anche rispetto a quel che avevo realizzato prima ancora di conoscerlo.
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