Luoghi dell' Infinito > Gloria della liturgia, forza del credere

Gloria della liturgia, forza del credere

La celebrazione è la forma della Chiesa: non si tratta di nutrire nostalgie ma di restituire incanto e bellezza a quel “luogo” che apre il “tempo”

​Pierangelo Sequeri

La celebrazione liturgica, prima ancora di “comunicare” una forma di Chiesa, la “fa”. La imprime e la esprime nel suo stesso esercizio (assai più che attraverso le insopportabili istruzioni-monizioni che la trafiggono da ogni lato, rompendone l’incanto). Nonostante la proclamata natura di “culmen et fons” della liturgia, la centralità della celebrazione dei santi misteri non accade ancora con l’evidenza corrispondente nella quotidiana pratica ecclesiale.
Naturalmente, il mistero accade comunque, anche nella nostra pochezza, che spesso riduce il rito a mesta incombenza disciplinare o a fantasiosa animazione dopolavoristica. Però, il tema del­l’adeguamento che deve essere messo a fuoco è strutturale, non contingente: senza questa messa a fuoco, sarà difficile mettere in circolo l’ethos rituale che ci è necessario per restituire l’entrata in liturgia all’incanto che le è proprio. Di che cosa parliamo? Parliamo del fatto che, per quanto riguarda la liturgia, il passaggio alla contemporaneità dell’ethos che deve ospitare e confermare la bellezza di una celebrazione cristiana eloquente, nel­l’habitat della città secolare, non è ancora avvenuto. Non si tratta della ricerca di espedienti per “animare” la liturgia, come continua a recitare il benintenzionato lessico pastorale, vistosamente privo di esiti minimamente apprezzabili. Di espedienti, in verità, ne abbiamo cercati sin troppi: spesso così “creativi” da configurare una ritualità parallela a quella prevista, e intenzionata – più o meno consciamente – a porre rimedio alla sua presunta freddezza. Non è mancato il contraccolpo. L’attuale disputa sul rito – straziante e stremante nella sua durevole sovradeterminazione polemica – ha certamente un altro obiettivo, che mira ben più in alto. Il suo appello all’incanto perduto del rito sacro, anche se erroneamente fissato sul blocco della tradizione pre-conciliare e sull’uso della lingua latina, ha qualche ragione. L’ottusità della pura regressione, come anche l’arbitraria invenzione dei gesti e delle formule, mancano seriamente l’obiettivo della cura della fede: sono forme di pigra rassicurazione, che si butta in avanti, o all’indietro, senza seria cognizione di causa. La traduzione e l’aggiornamento che ci mancano riguardano la pratica mistagogica del rito, che deve restituire alla sua grammatica e alla sua sintassi i toni e i modi della lingua materna della fede e della vita. La lingua materna della fede è la lingua biblica, in cui si nasconde e si rivela la storia di Dio con la comunità umana. La lingua materna della vita è quella in cui ormai condividiamo la vita sociale: plasmata da una nuova sensibilità per la qualità personale dell’esperienza spirituale e da una diffusa insensibilità per la dimensione sociale della fede religiosa. L’ethos che oggi dà forma alla prossimità e alla distanza della pratica religiosa, all’interno dell’attuale esperienza sociale, abita forme di narrazione e di risonanza significativamente diverse da quelle della società cristiana che ha preceduto la nostra.
[...]