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Il pennello e l’anima del panorama

Dall’arte romana al Novecento, il paesaggio si è ritagliato un posto di rilievo nella pittura

​Il paesaggio ha avuto una vita difficile nella pittura del Novecento. In fondo è accaduto nell’arte quanto è accaduto nella realtà, dove la natura è stata distrutta, violata e avvelenata come non era mai successo prima. Sembra quasi che, quanto più l’uomo ha creduto di essere il creatore di se stesso, tanto più abbia avuto difficoltà a custodire (e rappresentare) quel che un tempo si chiamava (e si sta tornando a chiamare) il Creato.
Eppure la pittura paesaggistica ha una lunga storia e forse nasce con la pittura stessa, se pensiamo alle scene di caccia delle grotte di Lascaux. Tra i suoi primi esempi, comunque, troviamo l’affresco del ninfeo della villa di Livia (la moglie di Augusto) a Prima Porta, ora conservato al Museo Nazionale Romano. Eseguito fra il 30 e il 20 a.C., è stato scoperto solo nel 1863, cioè negli anni in cui stava nascendo l’Impressionismo, a dimostrazione che i ritrovamenti non sono mai del tutto casuali. Qualcuno, anzi, ha parlato di “impressionismo” anche per quell’affresco azzurro e verde, che si trovava in una grande sala sotterranea, dove Livia teneva i suoi banchetti e si riparava dal caldo delle torride estati italiane. La somiglianza, in realtà, è un equivoco. L’opera augustea non è dominata dal sentimento dell’attimo fuggente che ispira Monet e compagni. Tutte le piante rappresentate hanno un significato simbolico, dall’alloro (un segno di gloria che però non è mai in primo piano, forse perché Augusto non amava i trionfalismi) ai viburni, i cipressi, i mirti, gli oleandri, le palme, le rose, i papaveri, le piantine di camomilla. Alberi, cespugli e fiori hanno un significato allegorico senza tempo, in rapporto con le divinità della natura.
Carica di rimandi simbolici è anche, tredici secoli dopo, la Predica agli uccelli di Giotto (1295 circa, Assisi, basilica superiore), dove il santo è totalmente immerso nel paesaggio. «Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica» leggiamo nella Legenda Maior. Uomini e animali sono tutti figli di Dio e il Poverello predica a loro come farebbe con noi, sembra dire a prima vista l’affresco. In realtà anche qui, come è stato notato (Chiara Frugoni), le colombe, in accordo coi testi di Gioacchino da Fiore che profetizzava la nascita di un ordine “colombino”, alluderebbero ai frati francescani.

di Elena Pontiggia