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In pellegrinaggio nelle Marche con Lorenzo Lotto

Le Marche sono state una vera seconda patria per il geniale pittore veneziano. Figura inquieta, orgogliosa e fragile, ha lasciato numerose testimonianze della sua pittura intensamente religiosa

​Alessandro Beltrami

Era nato al posto giusto al momento giusto, nel 1480 in una Venezia pronta a dare vita alla sua stagione artistica più roboante, ma Lorenzo Lotto aveva il problema di essere l’uomo sbagliato. Non per il talento: quello era eccezionale, superiore a molti, se non a tutti i suoi colleghi. Ma il carattere e forse anche una certa dose di sfortuna (chiamato a lavorare alle Stanze Vaticane da Giulio II, fu cancellato dall’esplosione di Raffaello) l’avevano messo fuori causa. Inquieto, irascibile e tenero, Lorenzo Lotto doveva essere uomo esigente, con una altissima coscienza di sé accompagnata da una scarsa attitudine alla diplomazia. Con un parametro che segna l’uomo contemporaneo, lo potremmo definire in cerca di autenticità. E così si ritrovò a distribuire la sua vita in un triangolo composto da Venezia e il Veneto, Bergamo, e le Marche. Un triangolo non equilatero, in cui il vertice marchigiano ha un peso specifico differente, al punto da diventare una seconda patria per il pittore. Tra le Marche e Lotto fu un innamoramento reciproco, che ha prodotto uno dei matrimoni più felici della storia dell’arte e che secoli dopo ha consentito di far riemergere il pittore dalle nebbie in cui si era dissolto. Lotto è con Caravaggio (l’intuizione è di Vittorio Sgarbi) la più grande scoperta della critica del Novecento. Forse perché con Caravaggio ha più di una similitudine: la personalità difficile e scontrosa, una religiosità sincera e tormentata, l’istinto supremo per la luce rivelatrice.
L’anello di fidanzamento tra Lotto e le Marche era stato un capolavoro assoluto: il Polittico di San Domenico, a Recanati. Datato 1506-1508, è l’apice di un’intera cultura pittorica. E per Lotto è l’analogo della Pietà vaticana per Michelangelo: un grado di perfezione insuperabile. L’abate Lanzi aveva già detto tutto: «Veneta nel totale è la sua maniera, forte nelle tinte, sfoggiata ne’ vestimenti, sanguigna nelle carni come in Giorgione. Ha però un pennello men libero che Giorgione, il cui gran carattere va temprando col giuo­co delle mezze tinte; e sceglie forme più svelte, e dà alle teste indole più placida e beltà più ideale. Ne’ fondi delle pitture ritiene spesso un certo chiaro o azzurro, che se non tanto si unisce colle figure, le distacca però e le presenta all’occhio assai vivamente». Tra “invenzione” e “poesia”, per recuperare due categorie impiegate da Andrea De Marchi per ragionare sulla pittura a cavallo tra quei secoli, Lotto sceglie entrambe. Per l’invenzione avrà in Mantegna e Dürer (si veda la cimasa, nordica fino al midollo) riferimenti costanti, un vero bordone a cui appoggiarsi fino alla fine. Ma ricerca e organizzazione degli “argomenti” retorici si combinano in una pittura che si dichiara strepitosa, esito estremo della luce di Bellini.
Il polittico è solo uno dei gioielli lotteschi del museo di Villa Colloredo Mels. Qui si trova il dipinto più celebre dell’artista - quella Annunciazione (1534) in cui la Vergine si volta spaventata quanto la gatta - insieme alla sperimentale Trasfigurazione (1510) e al piccolo San Giacomo Maggiore (1512). Non può dunque che partire da qui il girovagare attraverso crinali e centri piccoli e grandi sulle tracce del pittore.
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