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In ricordo di Giuliano Vangi

​Giovanni Gazzaneo

Come si può dare vita a una pietra, uno sguardo a un tronco di legno? Accade un miracolo: il marmo sorride oppure urla e quel che un tempo era un albero diventa una forma che indaga e ci interroga. Perché l’opera d’arte, quella vera, non può che essere l’eco, più o meno lontana, più o meno potente, di quell’opera d’arte suprema che è il soffio della vita donato a un pugno di polvere. E il miracolo accade anche oggi quando la materia viene plasmata dalle mani di un grande artista. Giuliano Vangi è stato un grande artista, dalla scultura potente, sempre in bilico tra il cielo e il baratro. Vittorio Sgarbi l’ha definito il Francis Bacon della scultura italiana. Ma Vangi è stato semplicemente Vangi: con la sua poetica ha saputo abbracciare l’intero orizzonte dell’umano e non solo il dolore che ha segnato tutta la pittura di Bacon.
Nato nel 1931 a Barberino del Mugello (luogo che lo vede conterraneo e in qualche modo discepolo di Giotto), ha chiuso gli occhi a questo mondo il 26 marzo 2024 a Pesaro, la sua seconda patria. Mi raccontava, con quel suo sorriso solo accennato eppure così luminoso e vivo come il suo sguardo silente, attento, curioso, che il primo a scoprire la sua vocazione di artista è stato nonno Paolo: «Ho sempre disegnato, fin da bambino. Il babbo di mia mamma, che era del Mugello, un uomo amante della musica e dell’arte, vide la mia passione e mi aiutò moltissimo. Andava al fiume a prendere la creta, la impastava e me la portava per farmi modellare. Mi raccontava sempre delle chiese che vedeva giù a Firenze, mi suonava la chitarra. E poi un giorno, invece di giocattoli, mi regalò un mazzuolino, un martello, con tutti gli scalpelli per poter scolpire: è stato il primo dono».
 La sua arte sa rivelare le inquietudini e il terrore dei nostri tempi, ma anche le grandi attese, il già e non ancora, e ha la forza di entrarti dentro, di farti percepire un dolore più profondo della malattia, dell’assenza, dell’insuccesso, un dolore metafisico, un’attesa metafisica. Le sue sculture sono in qualche modo uno specchio delle nostre anime, delle nostre ansie, ma anche dello stupore e della gioia di vivere: in quei volti lineari, in quei corpi tesi che vibrano in un movimento impossibile che solo Vangi sa imprimere alla pietra e al marmo, ritroviamo le profondità di noi stessi o almeno l’invito pressante a non fermarci alla superficie delle cose. L’invito ad andare oltre, ad aprirci al grande mistero dell’esistenza. Lo vediamo in questo suo ritrarre per oltre sessant’anni l’uomo e la donna, in questa sua ostinazione piena di speranza nel rimettere al centro l’umano, così estraneo, così profetico, così vero rispetto a quell’arte contemporanea che con altrettanta ostinazione disperata sembra volerlo cancellare. Come ci sono familiari le sue figure dallo sguardo che procede lontano, intenso e insieme smarrito, quelle labbra che sembrano aprirsi al sorriso oppure all’urlo. Quella capacità di saper imprimere nella materia i sentimenti più intensi, dalla sorpresa al dolore. I suoi volti raccolgono tutta la contraddizione dell’umano esistere. Nelle sculture i corpi quasi scivolano via, il volto resta la cifra, lo specchio dell’anima. Vangi nei visi di legno e di pietra sa cogliere tutta la gamma delle passioni e delle emozioni, dal dolore alla gloria. L’umano sentire traspare in un gioco di finito-non finito che ha il sapore della vita. Scrive Alessandro Masi: «La scultura, quella fatta di scalpello e sudore, è scarna e insegue solo i propri segni di eternità». Segni d’eternità impressi nelle umanissime figure di Vangi; ciascuna con la sua storia e con il suo mistero, quasi come il vagito che risuona all’alba di ogni piccolo d’uomo. La solitudine e l’angoscia, che spesso traspaiono nella sua opera, sono come la premessa alla tragedia dell’inimicizia: l’inimicizia dell’uomo rispetto a se stesso, rispetto agli altri, rispetto alla natura. «Ho sempre cercato di rappresentare l’interiorità», ci diceva Vangi con la mitezza di sempre, non consona alla sua bella e forte calata toscana. «Oggi vedo il nostro mondo interiore gravato da molteplici segni negativi. E le mie ultime opere trasudano di violenza. La drammaticità degli avvenimenti è sotto gli occhi di tutti: la guerra, ma anche lo sfruttamento dissoluto delle risorse naturali, il disordine e l’eccesso che contraddistinguono lo stile di vita dell’uomo d’oggi». Ecco allora affiorare opere come Uomo e caprone e Uomo e animale in cui non siamo più raffigurati come custodi di un mondo che ci è stato affidato e che consegneremo ai nostri figli. Siamo piuttosto dominatori nel segno della distruzione, in una vita che non ha futuro perché si consuma nell’istante e per l’istante. In Ares, nella forza dinamica di questo bronzo, estrema tensione tra spazi pieni e vuoti, l’architettura si fa serrata come mani alla gola, così strette da togliere anche l’ultimo soffio di vita. E nell’ultimo istante le braccia della vittima si spalancano verso l’alto. Un gesto, nel momento in cui non è più lecito barare, che indica nel cielo il destino ultimo, l’orizzonte infinito di cui è impastata la nostra stessa carne. «Vedo quelle braccia come un giovane albero che si rialza nonostante le frustate del vento, così come giovane è l’albero che ho voluto porre nel Grande racconto». Quest’opera è la sintesi del cammino artistico del maestro: un marmo bianco di Carrara di grandi dimensioni (due metri e mezzo di altezza per una base di oltre quattro metri) in cui è possibile entrare e seguire un percorso -  all’inizio largo e poi sempre più stretto e arduo - che i miei due figli più piccoli, vent’anni fa, trasformarono in una pista da biglie. Il maestro sorrideva. Quel percorso è la sua storia ma anche la storia antica e sempre nuova di ogni uomo che apre gli occhi su questa terra: alla fine c’è la porta stretta, quella che aspetta ciascuno di noi e che Giuliano ha attraversato nella sofferenza.
Il legame con il sacro - esplicito o sotteso - è antico in Vangi. A lui si devono alcuni tra gli interventi di adeguamento liturgico più importanti nelle antiche cattedrali d’Italia: Arezzo, Padova e Pisa. «L’opera d’arte che indaga l’uomo e che cerca di partecipare alla sua essenza, finisce inevitabilmente per affermare, sia pure indirettamente, la bellezza ultima, quella divina. Tutto ciò rende più arduo ma anche più semplice il compito dell’artista sacro contemporaneo. Dai primi secoli della cristianità fino al barocco, l’arte nelle chiese doveva essere una sorta di libro aperto in cui tutti potessero leggere le verità della dottrina. Oggi non bastano l’iconografia, la descrizione devota: all’artista viene chiesto di giocare la propria interiorità, di tradurre il mondo dell’invisibile, di rendere le cose percepibili spiritualmente, di suscitare una preghiera o un clima religioso attraverso un’immagine plastica, che diviene un percorso dal visibile all’Invisibile». L’urgente ricerca del Vero è stata l’orizzonte della sua vita.
Dice Nicola Loi, amico dal 1969 e grande mercante di scultura contemporanea: «Schivo, timido, silenzioso Vangi ha vissuto la sua vita come un monaco per l’arte, ha lavorato quasi fino alla fine: insieme con la sua famiglia non aveva un altro amore».