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L’Ararat perduto degli armeni

Per l’antico popolo la Grande Montagna è “il luogo creato da Dio”, orizzonte del primo genocidio della storia

​Antonia Arslan

Lo sguardo di chiunque appartenga alla diaspora armena, da qualunque luogo del vasto mondo gli capiti di provenire, quando atterra al grande, moderno aeroporto della capitale Yerevan, si fissa - inevitabilmente - sulla Montagna Incantata. Ma questo nome non ha niente a che fare con il famoso romanzo di Thoman Mann: nasce dal bisogno irreprimibile di “vedere”, finalmente, l’originale dell’immagine che ognuno di loro culla e venera nella sua mente e nel suo cuore, quella dell’imponente massiccio montuoso del monte Ararat, l’inconfondibile vulcano spento dalle due cime disuguali affiancate, che è il simbolo stesso del popolo armeno, della sua esistenza e della sua storia.
Ma l’altissimo Ararat (5.165 metri) non si lascia vedere facilmente. Come l’anima del popolo che lo ama, spesso è avvolto da nubi e - spesso - si lascia scorgere per un momento e poi scompare. Di rado appare in tutta la sua maestà perennemente innevata che punta verso il cielo, dove la fantasia subito colloca, sulla vetta fra le nuvole, la sagoma dell’Arca di Noè, che lassù fece il suo approdo di salvezza... Bisogna conquistarla con pazienza, quell’immagine, e insieme con lacerante nostalgia, accettando il fatto - straziante per i cuori armeni - che la si può soltanto guardare, e contemplare da lontano. Dal Trattato di Kars del 1921, essa appartiene alla Repubblica di Turchia, e a nessuno che abbia sangue armeno nelle vene è concesso di mettervi piede. Eppure, è un immenso sacrario, che amorevolmente custodisce e protegge al suo interno le ossa senza nome degli armeni della sacra montagna.
Io credo che non esista un altro popolo al mondo che soffra una situazione del genere: perché l’Ararat incombe, letteralmente, sulla capitale, è parte essenziale del paesaggio che la circonda - e non è lontano. Un tempo, vi si facevano regolarmente pellegrinaggi, partendo da Vagharshapat (o Etchmiadzin, poco distante dall’odierna capitale del Paese), dove risiede il Catholikos, capo spirituale di tutti gli armeni; vi si saliva per le vie conosciute dai pastori che allevavano le loro pecore dalla coda grassa, quelle che ancora oggi i pastori curdi riescono a portare fino a 3.500 metri di altezza, a pascolare le rade erbe delle alte quote. Gli armeni erano certi, infatti, che la sacra montagna ospitava ancora, pietrificati, i resti dell’Arca di Noè: sbarcato insieme ai suoi figli Sem, Cam e Jafet, egli si era inoltrato nelle terre pianeggianti dell’altopiano armeno, dedicandosi a piantare la vigna e a fare il vino. Discendente di Jafet sarebbe Hayk, il mitico capostipite della gente armena: e d’altronde la più antica pressa da vino, risalente a 6100 anni fa, è stata ritrovata nel 2010 dal famoso archeologo Krikor Areshian nella caverna di Areni proprio in Armenia, nella regione di Vayots Dzor (insieme, curiosamente, alla prima scarpa...)!
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