L'arte dei longobardi
L’horror vacui è una delle caratteristiche principali dell’arte longobarda, anche quando riprende modelli classici. A Brescia, Monza e Cividale i capolavori
Elena Pontiggia
I Longobardi amavano gli ornamenti. Nelle loro opere d’arte moltiplicavano i segni decorativi e, se dovevano creare una croce, la tramutavano in un gioiello tempestato di pietre preziose. Cicerone, che aveva lodato i Commentari di Cesare scrivendo “Nudi sunt” - intendendo dire che non avevano una parola di troppo -, non li avrebbe approvati. Eppure, a dispetto del grande letterato e filosofo e anche degli anatemi moderni di Adolf Loos, l’autore di Ornamento e delitto (1908), è difficile non rimanere affascinati dalla Croce di Desiderio, oggi al Museo di Santa Giulia a Brescia. Secondo la tradizione la croce risale all’VIII secolo (quando la regina Ansa, moglie di Desiderio, fondò appunto il monastero di Santa Giulia), anche se gli studi più recenti la collocano agli inizi del IX. Alta più di un metro e mezzo e larga uno, è decorata con duecentododici tra cammei, pietre preziose, paste vitree colorate (come dicono i manuali, e bisogna fidarsi perché è quasi impossibile fare il conto) ed è considerata il gioiello più grande di tutta l’oreficeria longobarda, anche se alcune gemme risalgono all’età romana e altre sono state sostituite in epoche successive.
Non è però un ornamento fine a se stesso. La croce gemmata simboleggia la salvezza portata dalla Passione e allude inoltre alla natura regale di Cristo e alla Gerusalemme celeste che splende di gioielli, come si legge nel libro dell’Apocalisse: «Le fondamenta delle mura della città erano adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento era di diaspro; il secondo di zaffiro; il terzo di calcedonio; il quarto di smeraldo; il quinto di sardonico; il sesto di sardio; il settimo di crisolito; l’ottavo di berillo; il nono di topazio; il decimo di crisopazio; l’undecimo di giacinto; il dodicesimo di ametista. Le dodici porte erano dodici perle […] e la piazza della città era d’oro puro» (21,19-21).
Animato dalla stessa straordinaria simbologia è l’Evangeliario di Teodolinda, la regina che resse il popolo longobardo per trentotto anni, dal 589 al 627, calcolando anche gli otto in cui governò in nome del figlio Adaloaldo ancora minorenne. L’opera è conservata nel Museo del Duomo a Monza. Secondo un’antica tradizione, l’evangeliario fu donato a Teodolinda nel 603 da papa Gregorio I in segno di gratitudine per la conversione dei Longobardi, che avevano abbandonato le dottrine ariane per abbracciare il cattolicesimo. La regina, a sua volta, lo lasciò alla chiesa di San Giovanni Battista. Il libro sacro è andato perduto, ed è rimasta solo la sua legatura in oro, smalti, pietre preziose e cammei (quante volte succede anche a noi, nella vita, di fare attenzione a ciò che brilla e di perdere l’essenziale…). Le due valve dorate della “copertina” racchiudono una croce gemmata incorniciata in una ghirlanda rettangolare di fiori d’oro, simbolo di vita eterna. La simmetria del disegno, così armoniosa, ha però qualcosa di involontariamente profano e fa pensare anche a una sorta di tavoliere per il gioco
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