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L'enigma affrescato di Castelseprio

Trovati fortunosamente nel 1944, gli straordinari dipinti della chiesa di Santa Maria foris portas hanno una datazione incerta che va dal VI al X secolo

​Roberto Cassanelli

Se un giorno d’inizio maggio del 1944, in piena Seconda guerra mondiale, il giurista e storico dei longobardi Gian Piero Bognetti, attraversando la brughiera della media valle dell’Olona tra Milano e Varese, non si fosse imbattuto nei resti della chiesa di Santa Maria foris portas (così detta per la collocazione all’esterno delle mura) la nostra conoscenza del sito di Castelseprio, l’antica Sibrium conquistata e distrutta dai milanesi di Ottone Visconti nel 1287, sarebbe radicalmente diversa. Restaurata subito dopo la fine del conflitto mondiale e ripristinata nella sua funzionalità con la ricostruzione delle perdute absidi laterali, la basilichetta (fino agli inizi del Novecento ancora centro della devozione locale per un affresco cinquecentesco della Madonna del latte) rivelò nella superstite abside orientale sotto strati di scialbo uno straordinario ciclo di dipinti di tema cristologico e di raffinatissima esecuzione, che da decenni costituiscono uno dei più ardui nodi cronologici e stilistici della cultura figurativa dell’Alto Medioevo occidentale. Quello che sorprese i primi indagatori fu innanzitutto la marginalità del luogo, un borgo fortificato di fondazione tardoantica su una via di comunicazione secondaria, a fronte della squisita qualità e originalità del ciclo, che fece subito avanzare l’ipotesi di un autore proveniente dall’Oriente bizantino.
Le raffigurazioni, incentrate sull’infanzia di Cristo e tratte liberamente dai Vangeli canonici e da quelli apocrifi, si articolano su tre registri, leggibili dall’alto in basso. In quello superiore si collocano l’Annunciazione, la Visitazione e la Prova delle acque amare; al medaglione che sormonta la finestra centrale con il Cristo Pantocratore fanno seguito il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme. Nel registro mediano sono la Natività, l’Adorazione dei Magi (al disopra della quale è l’Etimasia, il trono vuoto con mantello, corona e croce, che attende Cristo nel giorno del Giudizio, tra arcangeli in volo con scettro e globo crucifero) e la Presentazione di Gesù al tempio (le due scene successive sono perdute). Nel registro inferiore, scandito da arcate con tendaggi appesi a un’asta sulla quale posano volatili, è una cattedra vuota, coperta da un drappo su cui poggia il libro del Vangelo.
Gian Piero Bognetti, che stava svolgendo ricerche per la stesura del capitolo sui Longobardi della Storia di Milano promossa da Giovanni Treccani degli Alfieri, assegnò gli affreschi alla seconda metà del VII secolo, con la motivazione delle buone relazioni stabilite - grazie all’opera della regina cattolica Teodolinda - tra la monarchia longobarda e la sede papale, spesso retta da pontefici di provenienza orientale (i cosiddetti “papi greci”), e della diffusione anche in Italia settentrionale di missionari da questi inviati in funzione anti-tricapitolina (l’eresia alla quale aveva aderito il patriarcato di Aquileia). La grande monografia sulla chiesa, curata da Bognetti con l’architetto Gino Chierici e l’archeologo Alberto de Capitani d’Arzago, apparve nel 1948. Quasi subito però emerse una voce dissonante, rappresentata dallo storico del­l’arte tedesco Kurt Weitmann. Esperto di arte bizantina, lo studioso propose di avanzare la datazione di alcuni secoli, sino alla metà del X - non ulteriormente valicabile a causa di un graffito sull’intonaco menzionante il vescovo di Milano Arderico -, e di collegarlo alla cosiddetta “rinascenza macedone”, favorita dai buoni rapporti tra la dinastia ottoniana e gli imperatori di Bisanzio. Una posizione diametralmente opposta è stata espressa da un gruppo di studiosi che hanno anticipato la datazione dei dipinti, caratterizzati da una freschezza e scioltezza di tratto di matrice ancora ellenistica, alla seconda metà del VI secolo, in relazione alla riconquista dell’Italia da parte delle truppe di Giustiniano dopo la guerra greco-gotica. Un’ultima posizione, in qualche misura di mediazione tra le due estreme, vede invece il ciclo frutto della cultura carolingia del IX secolo, anche in relazione alla possibile committenza di un conte del Seprio molto vicino all’imperatore carolingio Lotario, figlio di Carlo Magno. Non va tuttavia dimenticato che già in età longobarda il castrum, menzionato come Flavia Sibrium su un “tremissi”, una moneta, di re Desiderio, era centro di un ampio distretto che si estendeva da Parabiago al monte Ceneri comprendendo il lago di Lugano e la Valle d’Intelvi, tra il lago di Como e il lago Maggiore.
Le ricerche archeologiche condotte negli ultimi decenni hanno contribuito a ricomporre la forma del castrum, a definire l’andamento e l’estensione delle mura e a rendere praticabile l’area della basilica di San Giovanni, fulcro dell’abitato. Un ulteriore, importante tassello conoscitivo per la cultura figurativa è provenuto dal restauro del complesso monastico di Torba, raro esempio di struttura altomedievale conservata in alzato, speculare al ben noto caso di San Vincenzo al Volturno in Molise. Il monastero, destinato a una comunità femminile, inglobò una torre della cerchia delle mura tardoantiche di Castelseprio, trasformandola in cappella. Sulle pareti dei due livelli intermedi sono lacerti di affreschi di epoca carolingia con iscrizioni di tono liturgico. Di particolare interesse sono i dipinti superstiti dell’oratorio del terzo livello, con teorie di santi, vescovi e monache, che richiamano una analoga teoria in stucco a Cividale del Friuli. Un nodo critico che necessita ancora di approfondimenti.