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La croce e il Calvario, tra immagine e devozione

Esclusi dall’iconografia del cristianesimo dei primi secoli, gli episodi della Passione e i suoi simboli conquistano spazio in parallelo con i movimenti spirituali

​Franco Cardini
All’interno della ricchissima simbolica cristica i riferimenti e gli strumenti della Passione sono forse gli ultimi a presentarsi, in senso cronologico, dopo quelli relativi alla divinità e regalità di Gesù nonché agli altri momenti della sua esistenza terrena: la natività, l’infanzia, il battesimo, l’entrata in Gerusalemme, la resurrezione, l’ascensione. La stessa crocifissione, pur essendo con la natività e la resurrezione il momento culminante della sua esperienza di uomo oltre che di Dio, rimase a lungo in ombra rispetto ad altri episodi, in quanto ritenuta evento prevalentemente luttuoso e doloroso, insomma “umano-troppo-umano”. E quando la si cominciò a raffigurare si preferì a lungo sottolinearne gli aspetti divini: il Cristo dagli occhi aperti e dall’espressione serena e regale anziché il più tardo Christus patiens, veramente – insieme con il Cristo morto della deposizione e della cosiddetta “Pietà”, cioè del compianto – espressione finale e tragica della Passione, con il suo corpo livido, piagato, contorto, l’espressione di immane dolore e gli occhi chiusi.
Del resto anche la croce, strumento centrale ed essenziale della Passione, venne mantenuta in disparte nell’iconica e nella simbolica del cristianesimo delle origini e dei primissimi tempi, in quanto troppo forte era il legame tra essa e la vergogna, l’umiliazione, la sconfitta: la croce era lo strumento di morte assegnato per eccellenza ai criminali, era un simbolo di obbrobrio e d’infamia e come tale, quando la nuova religione divenne con Costantino licita e poi, con Teodosio, religione di Stato, alla croce si preferì come simbolo d’onore e di gloria il chrismon, cioè le due iniziali intrecciate greche chi (X) e ro (P) della parola Christos, che divennero il “monogramma costantiniano” per eccellenza, con una chiara valenza trionfale e militare. Per far gradualmente accettare la croce come simbolo a sua volta di trionfo e di vittoria la si dovette dorare, ingemmare, coronare d’alloro o di querce o d’olivo. L’elemento specifico della Passione, quando restò richiamato nel suo aspetto, fu costituito dal cartiglio sul quale secondo l’uso era scritto il nome del condannato e il motivo della condanna, sintetizzato nella frase che in latino suonava Iesus Nazarenus Rex Iudeorum (I.N.R.I.), e quindi stilizzato nella tradizione bizantino-ortodossa (ma, in occidente, anche nella croce apostolica pontificia e in quella detta “di Lorena”) in una caratteristica croce a due bracci orizzontali il più alto dei quali era, appunto, la stilizzazione del cartiglio.
Fu tuttavia a partire circa dal X secolo che la Passione – come sequenza di episodi che riguardano il periodo che va dalla sera del Giovedì Santo fino alla Domenica di Resurrezione – divenne momento considerato con particolare attenzione dalla liturgia e in particolare dai “drammi liturgici”, dalle “sacre rappresentazioni” e da quelle forme poetico-spettacolari che nella tradizione tedesca si definirono appunto Passionspiele, “rappresentazioni spettacolari della Passione”. A partire dall’inizio del XIII secolo, specie con il rinnovamento della spiritualità cristiana apportato dal francescanesimo, che sottolineava l’umanità, la povertà, l’abiezione e l’umiliazione accettate dal Signore e le proponeva come prova del suo sublime amore per il genere umano, la Passione divenne oggetto di meditazione minuziosa e perfino d’imitazione, come ben si verifica nell’insorgere dell’uso dell’autoflagellazione.
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