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Le città sospese al tempo del coronavirus

Il lockdown ha trasformato gli spazi urbani in deserti. Un’esperienza che dà indicazioni sul presente e sul futuro

​Leonardo servadio


È stato pericoloso come una traversata del deserto. Eccetto che questa volta è stato il deserto ad attraversare noi. E ora si attende la terra promessa. «L’emergenza del coronavirus – rileva lo psichiatra Eugenio Borgna – ha interrotto le nostre abituali relazioni sociali. Ci siamo confrontati con la solitudine, insieme con la famiglia, ma talora nella famiglia. Non c’è una sola solitudine, e dal modo in cui è vissuta essa può divenire fonte di riflessione, di silenzio interiore, di ascolto e colloquio, di comunione e preghiera, nel non lasciarci travolgere dalle paure...». C’è chi ha paragonato a una guerra l’esilio in casa imposto dalla pandemia: ci sono stati i morti e gli atti eroici compiuti da medici e infermieri, in prima linea già prima di sapere con che armi combattere l’ignoto nemico invisibile. Ma non ci sono state bombe, crolli e detriti, piuttosto ci siamo resi conto di un mondo improvvisamente stravolto. L’abbiamo visto nel fermoimmagine delle città vuote, sospese in un tempo allucinato, divenute lontane anche se a due passi da casa. Splendide nei centri storici ritratti da aleggianti droni: i Fori romani resi alla limpida purezza delle ricostruzioni cinematografiche, la Sagrada Familia a Barcellona coi pinnacoli liberi tra spiazzi verdi senza code all’entrata, e a Venezia i canali tornati azzurri. Però senza di noi: le abbiamo guardate da fuori, le nostre città, pur standoci dentro.
La prima impressione è stata di sorpresa: appaiono belle senza auto, senza traffico, senza brulichio di passanti. «Ma in realtà sono scheletri decontestualizzati – nota Stefano Serafini, filosofo e studioso di biourbanismo – come lo sono le opere a carattere religioso chiuse nei musei. Le città sono per le persone, ma già prima del Covid-19 queste ne erano state allontanate. Nei centri storici un tempo vivevano anche i poveri, ma il consumismo turistico li ha espulsi. Poi, quando il consumo forsennato s’è fermato, le abbiamo riviste come in un periodo di vacanza, quando si gode la bellezza dimenticata nell’affanno del lavoro. Non a caso molti non volevano tornare a come si stava prima: i bambini hanno avuto tempo per giocare coi padri, alcuni hanno potuto coltivare un orticello...». E, nel silenzio, in molti hanno pensato a quanto è più bella la vita nei borghi, invece che nelle metropoli. C’è anche chi ha proposto di abbandonare le città e tornare nei piccoli centri rurali. «Ma sarebbe una follia – sostiene Paolo Portoghesi, un maestro dell’architettura italiana –, i paesi cesserebbero di essere tali e acquisirebbero i difetti delle metropoli. Bisogna piuttosto ascoltare il grido della terra, come ha scritto papa Francesco nella Laudato si’, e trasformare le città oggi malate in luoghi salubri. Dove si possano raccogliere ortaggi freschi come si fa nei campi, e dove si possa respirare aria pulita, per esempio trasformando i tanti luoghi oggi abbandonati». [...]