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Marche, una regione con la musica nel cuore

Gioachino Rossini fu figlio orgoglioso di Pesaro, ma le Marche hanno dato i natali anche a Pergolesi e Spontini e sono disseminate di splendidi teatri

​Andrea Milanesi

Le terre delle Marche vantano un posto di primo piano sulla ribalta del melodramma italiano, e quindi mondiale. Tra le piccole-grandi cittadine della regione hanno visto la luce alcuni dei più illustri esponenti della fiorente stagione musicale che tra XVIII e XIX secolo ha segnato il passo del teatro d’opera, e non solo.
Procedendo in ordine rigorosamente cronologico, il nostro viaggio parte da Jesi, ridente cittadina adagiata nell’entroterra anconetano, che nel 1710 ha dato i natali al grande Giovanni Battista Pergolesi, registrato però all’anagrafe con il cognome di Draghi, famiglia di mastri calzolai provenienti appunto da Pergola, pittoresco borgo oggi all’interno della provincia di Pesaro-Urbino. A Jesi il fanciullo apprende i primi rudimenti di organo e violino, dimostrando una straordinaria predisposizione per la musica, al punto che a soli quindici anni, tutto solo, lascia le Marche per trasferirsi nell’unica citta` che in quel periodo avrebbe permesso a un giovane senza particolari mezzi di godere di un’educazione musicale completa: Napoli, una delle capitali europee della musica, dove nei suoi Conservatori trova l’ambiente ideale per formarsi dal punto di vista professionale ma anche umano. È qui che studiano o insegnano i più grandi protagonisti della musica del tempo, da Alessandro Scarlatti a Leo­nardo Leo, da Adolfo Hasse a Leo­nardo Vinci, vale a dire alcuni tra i principali esponenti di quella che ovunque nel mondo viene appunto conosciuta e apprezzata come la grande “Scuola napoletana”. Ed è qui che Pergolesi riscuote grandi successi innanzitutto in veste di autore di lavori teatrali come La serva padrona, Livietta e Tracollo o Lo frate ‘nnamorato - titoli caratterizzati da una forte vis comica che ridisegnano i confini del repertorio buffo -, ma anche le grandi opere della “maturità” (scritte tra il 1734 e il 1735) come L’Olimpiade (dramma in tre atti su soggetto di Metastasio) e Il Flaminio (commedia in musica su libretto di Gennaro Antonio Federico).
La partitura che ha però consegnato a gloria immortale Pergolesi è di ispirazione sacra e coincide con il suo “canto del cigno”: nel 1736, ormai consunto dalla tubercolosi, con ogni probabilità riceve una nuova commissione da parte dell’Arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine de’ Dolori per un nuovo Stabat Mater, in sostituzione di quello ormai considerato “usurato” del grande Alessandro Scarlatti. Un capolavoro che fa irruzione nella storia della musica come una vera e propria folgorazione e che contribuisce a confermare una fama immensa tributatagli nonostante il fatto che il catalogo delle opere sicuramente riconducibili al Maestro di Jesi comprende solo una trentina di lavori, teatrali, vocali e strumentali. L’aspetto assolutamente curioso è che il totale delle composizioni a lui attribuite e conservate nelle biblioteche di tutto il mondo supera abbondantemente il numero di trecento; il rapporto tra opere autentiche e spurie è quindi circa di uno a dieci, cioè tra i più alti dell’intera storia musicale.
Ma tutto ciò poco conta perché con lo Stabat Mater Pergolesi ci consegna il suo più autentico testamento, artistico e spirituale. Ritiratosi a Pozzuoli per godere di migliori condizioni climatiche, pare che termini qui la sua estrema fatica, appena pochi giorni prima di morire: «Finis, Deo gratias», sono le ultime parole scritte di suo pugno sulla partitura. La tradizione vuole che negli ultimi istanti di vita venga visto piangere, mentre respira a fatica e contempla l’effigie della Madonna Addolorata che il compositore considera la sua “celeste musa”.
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