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Passo di Monte Croce, dove si tocca la frontiera

Sulle creste tra Comelico, Val di Sesto e Austria, storia, geografia e lingue seguono linee diverse

​Eraldo Affinati

Sul Passo di Monte Croce, al confine fra Veneto e Alto Adige, le stagioni si mostrano nella loro pienezza. L’inverno compare improvviso già a ottobre: come un lupo nero, con le orecchie diritte, si fa vedere lungo i gelidi torrenti del pianoro, sulle creste dei monti che nei millenni il vento ha divorato. L’autunno deposita le sue foglie secche in una stupenda distesa di boschi e malghe, fortini e sentieri. La primavera è un sogno fra Col Quaternà e Croda Rossa, dove da sempre gli uomini si sono fronteggiati, armi in pugno ed espressione fiera, pronti a rischiare la vita pur di non lasciare all’avversario nemmeno un palmo di terreno.
Qui, specie quando l’estate esplode precoce pur restando fragile, vengo spesso a interrogarmi sul significato assunto oggi dal termine “frontiera”. Assai più della nuova Europa, l’invisibile e sterminata rete informatica, grazie alla quale ogni abitante del pianeta resta potenzialmente in rapporto con l’umanità intera, sembrerebbe aver reso obsoleta l’idea stessa di confine geografico. È così, o non è così?
Lo chiedo alle pietre d’alta montagna dell’antico rilievo proprio nel momento in cui il conflitto russo-ucraino ci riporta indietro, come mai avremmo immaginato, alle ferite novecentesche che, sbagliando, credevamo rimarginate. M’aggiro intorno ai bunker, infossati nell’erba fradicia, sui prati del Campestrin-Katzegrand: bastioni difensivi fatti erigere da Mussolini che, nonostante avesse stipulato con Hitler l’asse Roma-Berlino, temeva una possibile invasione da parte dell’alleato germanico. Tali avamposti in cemento armato si sovrapposero alle trincee scavate nella roccia durante la Prima guerra mondiale: il risultato è questa lebbra di cupole corazzate cresciute come bubboni in mezzo ai rovi.
Il valico di Monte Croce fa impressione perché ci illude di potervi decifrare l’antico enigma, sempre potente e significativo, che vede riunite insieme la “cecità”  della natura e le gesta della storia: essendo lo spartiacque fra il bacino del Piave e quello del Danubio, costituisce il limite linguistico tra l’area tedesca e quel­la cadorina. Ancora oggi, come dubitarlo? Da Dosoledo a Moos è sempre Italia, ma chiunque, guardando in faccia i rispettivi abitanti, senza neppure sentirli parlare, si rende conto della finzione politica. Il tirolese pensa e sogna nella sua lingua madre, tedesca: perfino i celebri larici della Val Fiscalina, se avessero la favella, intonerebbero uno dei Lied di Schubert. Al contrario, nel “verde Comelico” di carducciana memoria, i passerotti sui rami fanno pensare subito a quello, divenuto celeberrimo, sul campanile davanti alla casa del conte Monaldo, a Recanati, che solo soletto si trastullava evitando la compagnia. Eppure, se misuriamo lo spazio da una valle all’altra, in linea d’aria è davvero un tiro di schioppo.
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