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Pavia la bella, capitale longobarda

La città lungo il Ticino, cresciuta di importanza nella tarda antichità, divenne centro politico e religioso: tanti gli straordinari edifici e le opere d’arte

​Saverio Lomartire

Al suo arrivo in Italia il popolo longobardo trovò un territorio e una popolazione ancora sofferenti ed esausti per le ferite del lungo e sanguinoso conflitto tra Goti e Bizantini che aveva visto l’intera penisola messa a ferro e fuoco per circa trent’anni.
La veloce conquista di un’ampia area geografica, dal nord al sud, si deve alla ingegnosa strategia messa in atto dal re Alboino. Il sovrano, consapevole della relativa esiguità numerica del suo esercito, il quale, ancorché rafforzato attraverso l’aggregazione di gruppi militari di altre etnie («con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo», narra il longobardo Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum), non avrebbe potuto sostenere una guerra di espansione territoriale e di lungo periodo, decise di procedere rapidamente “a macchia di leopardo”, prendendo solo le città che non avessero opposto resistenza e riservando a un secondo momento il completamento della conquista, che potè dirsi compiuta nella sua primissima fase prima della morte di Alboino, avvenuta a Verona nel 572.
Nel secondo libro della Historia, Paolo Diacono, dopo avere narrato l’arrivo dei Longobardi in Italia il primo giorno di aprile del 568 e l’immediata presa di possesso di Forum Iulii (l’odierna Cividale), passa in rassegna le sedici province della penisola italica (la prima è la Venetia e la sedicesima è la Sicilia; la Sardegna e la Corsica non sono comprese nell’elenco) e subito dopo descrive sinteticamente la rapida conquista di molte città della Venetia - estesa dall’Istria al fiume Adda - e della Liguria - dall’Adda ai confini della Gallia (tali nomi designano grosso modo rispettivamente la parte nord-orientale e quella nord-occidentale della penisola).
La capitolazione di Milano dovette avvenire con una certa facilità, costringendo il vescovo Onorato e la Curia a riparare a Genova. Pavia, posta una trentina di chilometri a sud di Milano e indicata da Paolo Diacono con il suo nome antico («Ticinus, che con altro nome è detta Papia»), sarebbe stata posta sotto un lungo assedio dall’esercito longobardo. Capitolata infine la città «dopo tre anni e qualche mese», il re avrebbe dichiarato di volerne giustiziare tutti gli abitanti, ma all’ingresso in Pavia, presso la porta di San Giovanni, il cavallo del re si sarebbe accosciato a terra e, «quantunque spronato con gli speroni, quantunque percosso con bastoni», si sarebbe rifiutato di rialzarsi. Sentite le parole di un longobardo del suo seguito, che gli consigliava di risparmiare la vita ai cittadini, perché cristiani, il re avrebbe fatto voto di non attuare il suo scellerato proposito; solo dopo avere garantita salva la vita ai pavesi, il cavallo si sarebbe alzato consentendo al re di entrare vincitore in città.
La veridicità di questo aneddoto, che la tradizione erudita pavese ha conservato gelosamente e che è ricordato da una piccola epigrafe seicentesca su un palazzo dell’attuale corso Garibaldi - esattamente dove un tempo sorgeva la porta San Giovanni - è stata recentemente posta in dubbio.
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