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Quel che passa il convento

Abbazie e monasteri, nel Medioevo, sono la culla di eccellenze enogastronomiche e di farmaci naturali

​Franco Cardini


La sobrietà, perfino il digiuno, anche la privazione, possono essere frutto di libertà. La stessa povertà, quando è volontaria, è notoriamente causa ed effetto di libertà spirituale. Francesco d’Assisi non peccò certo di gola chiedendo, in punto di morte, di poter assaggiare un’ultima volta i prelibati mostaccioli che preparava per lui, a Roma, madonna Iacopa de’ Settesoli. Fu un omaggio estremo a quella che, in tutti i possibili sensi della locuzione, potremmo definire la “grazia di Dio”. La bellezza e la bontà del Creato: i colori, gli odori, i sapori. Un cibo materiale gustato spiritualiter.
Così era nei monasteri, dove – anche in quelli di più rigorosa disciplina – gusto e decoro non mancavano mai. Povertà non significa né miseria, né disdoro, né squallore. Pensiamo solamente al fatto che ancor oggi una delle migliori cioccolate al mondo è prodotta dai monaci cistercensi “trappisti”, i più rigorosi in quella congregazione benedettina strettamente vegetariana e usa a digiuni e astinenze prolungati. E pensiamo ancora a un’altra congregazione benedettina, i certosini, notoriamente espertissimi in formaggi molli e in distillati alcolici. Ordine, sapienza, esperienza, misura. Il fraticello goloso e rubicondo che s’intrufola in cantina, che s’ingozza di salsicce e si strafoga di birra o di vino è solo una trovata per divertire i bambini: non senza una qualche pennellata di anticlericalismo volgare.
Come, e perché, dunque, gli austeri monasteri medievali sono stati per molti versi la culla del buon cibo e perfino della gastronomia? La risposta sta nella vita stessa dei monasteri come centri di cultura e di produzione, luogo anche di giardinaggio, di orticoltura (essenze medicamentose comprese) e di allevamento. Non per caso, il termine “ricetta” è tanto medico e farmacologico quanto gastronomico e culinario.
Nei duri anni del V-IX secolo, che hanno coinciso con una vasta e generale depressione continentale, i monasteri benedettini hanno tessuto sull’Europa intera la loro tela organizzativa e culturale, riqualificando l’agricoltura e la produzione, salvaguardando i monumenti del pensiero antico, fornendo sicurezza e, nei limiti del possibile, pace alle genti disorientate del tempo. Non è certo casuale che san Benedetto abbia avuto un biografo d’eccezione come papa Gregorio Magno, organizzatore fermo d’una Chiesa che egli voleva non solo vigile nel campo spirituale, ma anche attenta alle necessità materiali dei credenti. È stato detto, e non certo a torto, che quello di Benedetto è un monachesimo tipicamente “romano”, in quanto dell’esperienza monastica non esalta – come accade in quello orientale – il lato mistico, bensì l’equilibrio fra vita dello spirito e vita quotidiana, e il sereno, fermo impegno nel risolvere una quantità di problemi concreti
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