I santuari postmoderni del culto dell’arte
L’evento culturale è divenuto un rito, le mostre ostensioni, i musei luoghi di devozione collettiva. Dove si manifesta la dimensione perduta del sacro
Giuliano Zanchi
In Vite di scarto Zygmunt Bauman parla del museo come di un cimitero: «Possiamo dire che quel che i cimiteri sono per gli esseri umani vivi, i musei sono per la vita delle arti: sono luoghi dove smaltire gli oggetti non più vitali e animati». Questa analogia non fa che riprendere il tono di quelle pagine in cui Paul Valéry confessava di non amare troppo i musei: «Il mio passo si fa religioso. La mia voce cambia, diventa poco più alta che se fossi in chiesa, ma meno forte di quanto non mi accada nella vita. Presto non so più che cosa sia venuto a fare in queste solitudini cerate, che ricordano il tempio e il salone, il cimitero e la scuola» (Le problème des musées). «Cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati!», strillava Marinetti nel suo Manifesto del futurismo (1909). Santuari della cultura nella città postmoderna, i musei non nascono diversamente dai primi luoghi di culto del cristianesimo antico, sorti in prossimità delle necropoli. Questa origine non ha impedito a essi di divenire essenziali luoghi di vita e di socialità.
Questo costante rimbalzo di metafore funerarie, che naturalmente non dice tutta la verità sui musei, mette nondimeno in vista un aspetto che, se misconosciuto, comprometterebbe qualcosa di essenziale nella comprensione della loro ragione sociale. Esso mette in luce il carattere essenziale del rapporto che il museo istituisce fra gli “esemplari” che custodisce e l’assenza di cui sono testimoni. Essi irradiano la mancanza del contesto che li ha generati, e che non è più il loro habitat naturale. Se non proprio cimiteri, i musei sono orfanotrofi.
Il caso dell’arte sacra, materia prima nella fondazione delle grandi pinacoteche dell’Ottocento, mi sembra particolarmente emblematico. Un dipinto religioso entra in sala perché esce di chiesa. Di matrice religiosa, oppure no, una selezione museale è in ogni caso sempre la celebrazione di un lutto. L’opera d’arte approda al museo perché esce dalla vita, e manca del suo passato. Essa sacralizza una distanza che la società moderna e contemporanea ha sviluppato come relazione al proprio passato, sperimentato come patria perduta di quelle narrazioni che non ci sono più contemporanee.
Musealizzare del resto è divenuto una forma del nostro rapporto col senso del reale. Nella civiltà dell’eterno presente quella della “musealizzazione” è una prassi che si applica non più solo alle opere d’arte o agli esemplari di una cultura esotica, ma a qualsiasi cosa. La “musealizzazione” è un principio operativo che si applica a tutta la realtà. Oggi si musealizza tutto. A velocità crescenti. Il caso del design è emblematico. Nella musealizzazione dell’oggetto di design, che mette sottovetro oggetti quasi appena usciti dall’agone del mercato, non si esalta soltanto l’incalzante creatività del disegno industriale, ma si celebrano gli effetti di una transustanziazione che trasforma la routine dell’innovazione in deposito di una tradizione, in modo sempre più accelerato. Quella del “modernariato” è la più fertile fabbrica di reliquie del nostro tempo.
È questo rapporto col passato, luogo dell’ultima trascendenza disponibile a una civiltà del disincanto, a intrecciare sempre di più la crescente popolarità culturale dell’arte con il suo altrettanto crescente risvolto spirituale. Culturalmente parlando, la dimensione dell’“arte” ha ereditato la funzione di significante di quei valori postmaterialistici che un’organizzazione utilitaristica della socialità ha tolto dalla cassetta degli attrezzi essenziali, e che la crisi delle religioni ha lasciato senza referenza. Gratuità, creatività, sensibilità, ingegno, saggezza, pensosità, estro, oblatività, sono atteggiamenti confluiti nel complesso di una fruizione della “cosa” artistica che ha assunto tutte le caratteristiche del comportamento “spirituale”. La levitazione pubblica del suo campo di interesse ha nettamente assunto la consistenza di una via “contemplativa” condotta con altri mezzi e messa a disposizione del soggetto agnostico postnietzschiano.
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