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Sol Levante, la pittura fa filosofia

Utamaro, Hiroshige, Hokusai. Linea e colore per dare forma al vuoto

​Hokusai, Hiroshige e Utamaro sono i protagonisti della pittura giapponese moderna. Il più anziano di loro, Kitagawa Utamaro (1753-1806), universalmente noto solo come Utamaro (che in realtà era il suo nome proprio), è uno dei maggiori interpreti dell’ukiyo-e, “la pittura del mondo fluttuante”: un movimento artistico e letterario che si era sviluppato a Tokyo a partire dal tardo Seicento e i cui temi prediletti erano gli attori del teatro Kabuki, le cortigiane del quartiere di Yoshiwara e, più tardi, i paesaggi. Era una pittura che considerava la tela e, soprattutto, la carta come uno spazio vuoto, e al vuoto dava il massimo valore.
Il disegno dell’ukiyo-e era un puro contorno, una linea “piatta” di straordinaria leggerezza, in cui il colore splendeva come un’apparizione. Il corpo umano, poi, in quella pittura godeva di una assoluta libertà. Il canone occidentale contemplava la figura eretta, quella giacente e poche altre varianti. Invece nell’ukiyo-e si susseguivano donne e uomini piegati, accovacciati, colti nelle posizioni più diverse, non escluse quelle erotiche. Era un’anatomia nuova e imprevista, che tuttavia non era mai triviale, anzi manteneva una sua misteriosa dignità e perfino sacralità, anche dove non la si sarebbe mai immaginata.
Alla storia e al mito, che da noi erano stati una fonte d’ispirazione per secoli, la pittura dell’ukiyo-e sostituiva la natura. Lo chiarisce bene Van Gogh che, parlando di Hokusai, osserva: «Studiando la pittura giapponese incontriamo quest’uomo indubbiamente saggio e intelligente, un filosofo. E lui che cosa fa? Passa il tempo a studiare la politica di Bismarck? No, studia un semplice filo d’erba». Un filo d’erba, va aggiunto, che però per Hokusai non era affatto semplice.
Katsushika Hokusai. Nato a Edo nel 1760, inizia a dipingere verso i vent’anni, quando entra nella bottega di Shunsho, un maestro dell’ukiyo-e, e dipinge attori e soggetti ispirati a romanzi popolari. A quel periodo giovanile segue il periodo Sori (1795-1797), chiamato così perché in quell’epoca l’artista era succeduto a un certo Sori nella direzione di una scuola di pittura, e veniva soprannominato Sori II. Hokusai definisce in questi anni i suoi temi più caratteristici: le donne sinuose e delicate, i paesaggi con il vulcano Fujiyama e il mare. Solo nel terzo periodo però (1797-1810), in cui ha dai quaranta ai cinquant’anni, raggiunge la piena maturità artistica. Nascono allora le visioni liriche dei susini in fiore, del monte Fuji tra i ciliegi, delle figure femminili di sottile musicalità. Hokusai attraversa poi un momento di transizione (1810-1819), segnato soprattutto da un’attività teorica e didattica che culmina nella pubblicazione di una ventina, addirittura, di manuali di pittura. Non era una scelta volontaria. Il maestro stava attraversando un periodo economicamente difficile per scelte dissolute di figli e nipoti, e aveva bisogno di guadagnare. E siamo al quinto periodo, il cosiddetto periodo Iitsu, quello dei capolavori assoluti. L’artista ha ormai sessant’anni e, mentre i suoi compagni di strada continuano a ritrarre cortigiane e attori, lui si concentra sul paesaggio. Anzi, lo rivoluziona perché per lui la natura è sempre in colloquio con il soprannaturale. Che cos’è la Grande onda, la sua opera più nota, se non un trattato di filosofia e un’Odissea riassunti in trenta centimetri di xilografia?
di Elena Pontiggia