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Un mistero chiamato Palermo

Il lockdown ha rivelato aspetti sorprendenti della città che i suoi forti contrasti avevano messo in ombra

​Franco La Cecla

Ci sono stati giorni, negli spiragli del lockdown, in cui chi era cresciuto in questa città si affacciava al balcone e si stupiva dell’aria trasparente, da lei si faceva condurre per le scale fino al portone, poi si avventurava giù per Piazza Massimo e via verso il mare. Non pareva possibile che la città fosse come cristallo di luce, che l’aria sembrasse quella di una piccola isola sul mare. L’azzurro del cielo era tale da commuovere il cittadino abituato all’opacità del traffico e rassegnato all’aria di città. E giunto al Foro italico la sorpresa diventava un terrazzo spalancato sull’acqua, il capo Zafferano, le Madonie, si arrivava a vedere l’Etna e allora ci si sentiva davvero diversi, fortunati a essere su una terra così viziata dagli elementi. L’intero processo che aveva richiesto sacrifici e chiusure sembrava premiarci, con le acque del porto di Sant’Erasmo che erano diventate trasparenti da potercisi bagnare. Il mare, dimenticato dai cittadini per molti anni, tornava a porre loro antichi quesiti: come mai siete qui senza accorgervene? Come mai avete dimenticato che questa città è un tutt’uno con lo splendore dell’isola, come mai continuate a provocare la fortuna e a non ringraziarla mai?
Per chi c’è nato questo è un luogo di grazia e dannazione al tempo stesso. La sua grazia si volge in rabbia perché la bruttezza qui è maggiore della bruttezza di un posto brutto. La devastazione a cui il “sacco di Palermo” negli anni ’60 e ’70 ha sottoposto la città è una fitta che non vi aspettate. Come non vi aspettate le rovine che ancora sbucano nelle spire del vecchio centro, le case abbandonate, le strade divelte, i cumuli di immondizia disperati. Nello squillo della luce e del sole tutto ciò appare più assurdo e per chi ci vive più imperdonabile. C’è un abbandono che vi prende alla gola, come quegli strati di manifesti sui muri che si accartocciano in una gobba che si inchina verso la terra. Questo riguarda noi, coloro che qui sono cresciuti e che si stupiscono di come la bellezza si ripresenti nonostante tutto, tra i muri sbrecciati, l’orrendezza dei quartieri nuovi, le stragi della periferia. Chi arriva da fuori ci rimprovera: ci spiega che non sappiamo dove siamo, che non ce lo meritiamo tutto questo. E ci narra le proprie scoperte, quegli angoli, quelle basole, quegli odori. Noi facciamo faccia da furetto: non ci casco, non ci casco. Salvo poi  farci prendere da malinconie, in una giostra che ci turba: cediamo e non cediamo, ci facciamo trascinare e poi pensiamo «quanto sono ingenui questi stranieri». Si innamorano perfino delle rovine, dell’umidità e delle muffe, della miseria umana di strade infossate e di scale affollate da speranze represse. Palermo è tutto questo e lo sconforto è ancora più sconforto per chi ci è cresciuto perché non se ne può essere sicuri fino in fondo.
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