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Visitatore, pensati libero

Una provocatoria storia dei musei dalla parte di chi li guarda. Ognuno, giustamente, a modo suo

​Irene Baldriga

È indiscutibile che la popolarità dei musei sia un fenomeno in crescita. Se ne parla sempre più spesso: se non abbastanza nell’agenda politica, accade con regolarità sui giornali e nel discorso pubblico, insistendo sul ruolo strategico che queste istituzioni possono svolgere nella costruzione della consapevolezza civica, nella diffusione di valori e nella ricerca di esperienze di apprendimento e benessere psico-fisico. Non soltanto il museo custodisce, tutela, studia ed insegna, come recita la definizione dell’International Council of Museums (2022). Esso intrattiene, partecipa, interpreta, discute, orienta e propone; allevia lo stress, incoraggia la riflessione e le relazioni sociali, interviene su grandi questioni planetarie, come la guerra, la crisi climatica e i diritti umani.
In questo costante flusso di importanti e validissime argomentazioni – che puntano a smontare definitivamente l’immagine del museo elitario e ad incoraggiarne la militanza – risulta fondamentale il ruolo del pubblico: o meglio, dei “pubblici”, perché è al plurale che gli addetti ai lavori amano declinare questo termine, per manifestare l’intenzione – politica, culturale, pedagogica – di riconoscere la varietà dei loro interlocutori, con i loro diversificati bisogni, le loro preferenze e aspettative. Accade così che nello spazio del museo – dove i visitatori giungono per scoprire, ammirare, comprendere il patrimonio culturale – si attivi una forma di esposizione complementare e contraria: è il pubblico a mettersi “in mostra”, offrendo a osservatori discreti il proprio comportamento, le proprie reazioni, le preferenze e le debolezze.
È questo l’ambito dei “visitor studies”, un campo di ricerca esploso negli anni ’90 soprattutto in area anglosassone come supporto strategico al filone della cosiddetta “nuova museologia”, la corrente metodologica, politica ed educativa che ha incoraggiato l’idea di una sempre più decisa apertura dei musei al contesto sociale, rompendo di fatto quella barriera culturale che concettualmente sembrava bloccare l’identità del museo in una bolla rarefatta e paludata, irrimediabilmente distante dall’orizzonte del vivere quotidiano. Introdotte agli inizi del ’900 come applicazione della psicologia ambientale, tali ricerche hanno evidenziato come lo spazio del museo costituisca un contesto privilegiato degli studi comportamentali, offrendo informazioni preziose per valutare e migliorare il nostro rapporto con le opere d’arte e con le collezioni.
La complessità dello spazio museale è accentuata dal suo prestigio sociale, al punto da indurre i destinatari di sondaggi e interviste a mentire sistematicamente ai ricercatori: con molta difficoltà un visitatore (o un “non visitatore”) ammetterebbe di annoiarsi o di non comprendere l’offerta di un museo. Alla fine degli anni ’60 Pierre Bourdieu e Alain Darbel condussero una ricerca di tipo sociologico, dimostrando – dati alla mano – che il consumo culturale, in particolare quello dell’arte, è in gran parte riservato a chi già possiede una solida formazione scolastica o universitaria e che ha maturato, sin dall’infanzia, una familiarità con gli spazi espositivi.
Studi successivi hanno approfondito il profilo delle più comuni tipologie di visitatori, arrivando a classificarli in base alle loro attitudini: si hanno così gli “esploratori”, i “facilitatori”, “i cercatori di esperienze”, i “professionisti/hobbisti” e persino i “ricaricatori” (quelli che vanno nel museo per rigenerare ottimismo ed energie vitali). Ciò che soprattutto queste ricerche hanno dimostrato è che ciascun visitatore costruisce la propria esperienza di visita in modo del tutto individuale, in una combinazione di elementi fisici, personali e sociali rispetto ai quali il museo può intervenire solo in minima parte, nell’intento di supportare il processo di apprendimento e di crescita.
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