Luoghi dell' Infinito > A passeggio tra i viali di Bucarest con il fantasma di Ceausescu

A passeggio tra i viali di Bucarest con il fantasma di Ceausescu

​Ceaușescu era caduto da poco, in modo cruento: e feroce, come la sua spietata dittatura che così duramente aveva pesato sulle spalle dei rumeni. Una plumbea sequenza di giorni grigi, uno eguale all’altro, trascinando una vita incolore e impaurita: questo era il destino toccato a questo popolo romantico e generoso, che dopo l’indipendenza nel 1878 aveva dato alla sua leggiadra capitale forme così eleganti e moderne, secondo lo stile del secondo Ottocento e di un liberty aggraziato e audace, da venir chiamata la piccola Parigi dell’Est.
La vita intellettuale era allora vivace e cosmopolita, fiorivano la cultura e la musica, molto aperte agli influssi occidentali; rumeni e tzigani, ebrei e ungheresi vi coabitavano, non senza frizioni, ma in un clima di discreta tolleranza. La “Grande Romania” del Novecento, nel periodo fra le due guerre, divenuta un paese grande e ricco, era innamorata soprattutto dell’esprit de finesse e dello splendore diffuso della civiltà francese: all’epoca, la lingua franca della cultura e della diplomazia – conviene ricordarlo – era proprio, e prima di tutto, il francese.
Fu nei primi mesi del dopo Ceaușescu che mi arrivò l’invito a tenere alcune lezioni all’università di Bucarest. Vi andai in un maggio caldo e gradevole, curiosa di conoscere un paese di cui avevo tanto sentito parlare da un’amica giovane, fuggita da una vita di oppressione e di paura, e da una vecchia signora che spesso ci veniva a trovare e ci raccontava i dolci ricordi del suo paese perduto. Ma raramente credo di aver avuto un’impressione così bizzarra e angosciosa di un viaggio, come se in Romania coesistessero due anime che si ignoravano: la vecchia struttura statale e burocratica, abituata a trattare il popolo come un volgo di sudditi, e la potente volontà di ribellione e di rinnovamento che la caduta così improvvisa e immediata del dittatore aveva rivelato. Un’atmosfera strana, eccitata e rabbiosa stimolava la gente, che aveva voglia di raccontare allo straniero non solo gli infiniti orrori del regime, ma il sopruso indimenticabile perpetrato sul corpo vivo della sua amata capitale: la distruzione di interi quartieri, di antiche chiese e di palazzi che segnavano la storia della città e del Paese.
Un testimone mi raccontò dei due palazzi di Ceaușescu e della moglie, uniti da un lungo corridoio sotterraneo, in cui gli insorti increduli entrarono trovandoli deserti; e una volta arrivati nelle grandiose cucine scoprirono, abbandonato su un tavolo, il foglio col menu del giorno e una splendida torta appoggiata su un vassoio: il cuoco era scappato. Avevano fame, e così fecero una sosta inattesa e, trovati coltelli e forchette, si divisero la torta.
Ricordo viali quasi deserti, negozi inesistenti o pressoché vuoti, musei polverosi con strani custodi grassi e diffidenti che tallonavano da vicino il raro turista; e la prima pizzeria, che un ragazzo intraprendente aveva aperto con molta buona volontà, con prodotti approssimativi ma piena di gente ordinatamente in fila senza un mugugno. Come gentiluomini impoveriti, resistevano alcuni fatiscenti palazzi; cominciavano a ricomparire, avvolte come mummiette in sete e chiffon d’anteguerra, le ultime gentildonne misteriosamente sopravvissute a tutte le epurazioni.
Ma soffiava un vento di generosa follia.

di Antonia Arslan