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Catullo, il ragazzo che parla al cuore

di Antonia Arslan​

Mio padre amava il lago di Garda, e soprattutto il versante orientale, Sirmione e le grotte di Catullo. Ci andavamo regolarmente, anche perché lui si occupava di certe inalazioni mediche che si facevano alle terme, adorava guidare e si portava dietro qualcuno di noi figli. Erano gite molto ambite, anche se preferiva i figli non vomitanti, ai quali non capitava mai di avere “afango e gòmito” (linguaggio famigliare per affanno e vomito, coniato da mia sorella). Di solito imbarcava me e il maggiore dei maschi, Gianni, che mangiavamo sempre di gusto e non stavamo mai male. Tuttavia la gita a Sirmione era speciale per un altro motivo: andando, si dovevano recitare poesie, una dopo l’altra, e provare a cantarle, per dare al ritmo poetico anche una qualche eco musicale. Veniva fuori di tutto. «Ragli d’asino» sentenziava papà, che poi si metteva a cantare anche lui, qualche canzone di montagna, con una voce, gli facevamo notare noi in coro, piuttosto asinina.
Ma un giorno ci apparve di umore strano, malinconico e meditabondo. Non ci chiese poesie, né canzoni; rispondeva asciut-to, e guidava in modo brusco e più veloce, stop and go, disse Edoardo che stava studiando l’inglese e se ne vantava molto. Bofonchiava tra sé a voce bassa, ma io ben presto capii che aveva litigato con la mamma, come succedeva piuttosto spesso. Avevano dieci anni di differenza, e qualche volta si sentivano proprio tanto; era in quelle occasioni che mamma Vittoria si raddrizzava e proclamava che sarebbe scap-
pata con un colonnello (c’era un comando militare vicino a casa, ma ci abitava un generale; l’idea del colonnello le serviva per spaventare papà, che – sempre innamoratissimo – infatti si agitava molto. Devo dire che noi invece non la prendevamo sul serio).
Quel giorno però era proprio malinconico, e improvvisamente disse, come fra sé: «Quanto può far male l’amore…», e io sentii come un’eco pesante nel cuore, un rintocco lontano. Avevo quindici anni, e molta sete nel cuore. E poi proseguì a voce bassa: «Solo Catullo di Verona ha capito davvero, e consola davvero». E si mise a parlare del passero morto e della bella Lesbia, e quel latino armonioso, raccontato come una fiaba, diventava nella sua bocca un balbettio infantile, di supplica e di venerazione. «Era poco più di un ragazzo del nord, proprio di Sirmione, andato a Roma a fare fortuna – disse papà quando gli chiesi chi era –, era spavaldo e ribelle e scriveva bene, così lo accettarono fra la gente importante della grande città. Si innamorò della stella di Roma, la nobilissima e viziatissima Clodia, che se lo tenne per un po’, come una piacevole novità, un diversivo, ma poi si stancò di lui e lo abbandonò. Ed è cantando il suo amore sconfitto che lui è divenuto immortale».
Quel pomeriggio sentii che quel ragazzo sarebbe diventato mio amico. Mi misi a cercare le sue poesie, e la sua voce mi parlava fitto, come a una sorella. Piansi desolatamente quando lessi il compianto per il fratello morto lontano e solo, andato là «unde negant redire quemquam», da dove si dice che nessuno ritorni..., e lo ammirai per la sua forza gentile e per la sua bravura, per come i versi gli scivolavano perfetti dal calamo, per come deliziosamente aveva dedicato il suo libretto all’amico Cornelio. E ancora oggi egli viene, se lo chiamo, e canta per me.