Luoghi dell' Infinito > C’è un popolo in attesa sotto la bianca tenda dell’Ararat

C’è un popolo in attesa sotto la bianca tenda dell’Ararat

​«Via dalla montagna sacra: l’Ararat ora sarà per noi un paese straniero»: così piansero gli armeni, in tutti i luoghi del vasto mondo dove la diaspora successiva al genocidio del 1915 li aveva portati, quando dall’ottobre 1921, col trattato di Kars, la grande montagna, simbolo fortissimo della loro unità di popolo, venne ceduta dai sovietici a quella Assemblea Nazionale che ben presto sarebbe diventata la Repubblica di Turchia.
Ma l’Ararat (che gli armeni chiamano Massis) è oggi più che mai presente nell’immaginario del popolo armeno. La sua vista incombe sulla capitale Yerevan, anche se le sue due cime sempre innevate sono drammaticamente lontane, al di là della chiusa frontiera con la Turchia, oltre il famoso ponte spezzato sul fiume Akhurian che univa le due parti del regno d’Armenia. Oggi dal monastero di Khor Virap vedi solo qualche sparso gregge che si aggira nella terra di nessuno tra i due Paesi e, lontana, una baracca di soldati. Nessuno che porti un nome armeno ha il permesso di salire lassù.
Eppure non sempre è stato così. Ben diversi sono i fatti che la storia ci racconta. Come un quadro di Ivan Ayvazovskij (1817-1900) – La discesa di Noè dal monte Ararat – dispiega ai nostri occhi con suadente fascino ottocentesco, gli armeni si sentono legati al monte dove si arenò l’arca di Noè da un fortissimo legame spirituale. Ma anche carnale. Il vino fu inventato nella pianura ai piedi del monte, i figli di Noè là coprirono il padre ubriaco, là nacque il cristianesimo armeno, con le sue “chiese di cristallo”, le croci di pietra, i monasteri splendidi, annidati in valli romite, dove schiere di monaci diedero vita a un fiorire di codici miniati di straordinaria bellezza.
Fino a un tempo non troppo lontano la sacra montagna era abitata, addomesticata da legioni di operose formichine umane che si erano arrampicate sulle sue coste brulle, spazzate da venti terribili e da bufere improvvise, fino ai ghiacciai solcati da crepacci profondissimi. Erano gli armeni di montagna, alti, massicci e robusti. Andavano in processione dal Caucaso e dagli altopiani in alcuni giorni solenni, salendo verso un ghiacciaio che era chiamato Luogo dell’Arca, come ricordano numerose testimonianze, fino alla fine dell’Ottocento. Devoti, industriosi, parsimoniosi, si erano insediati in ogni angolo vivibile del monte, fondando numerosi villaggi nelle zone più riparate, anche a quote molto alte; vivevano di pastorizia e avevano selezionato una razza resistentissima di pecore con la coda grassa, capaci di trovare dovunque di che nutrirsi. I pascoli estivi arrivavano a più di tremila metri, e una razza di cani da pastore altrettanto robusti ed estremamente aggressivi badava alle greggi.
I resti di quei villaggi sono oggi deserti, e i pastori curdi – che hanno ancora le pecore e i cani, e cent’anni fa spesso accolsero qualche bambino armeno – li considerano luoghi maledetti. Parlano le croci sui muri in rovina, i resti crollanti delle antiche chiese, le croci di pietra rovesciate; e, se qualcuno ti accompagna a cercarle, le fosse comuni dove si possono ancora contare le ossa: perché gli armeni dell’Ararat non sono stati deportati, ma eliminati sulla loro stessa materna montagna. Sono tutti lì: si tengono compagnia, e aspettano la resurrezione.

di Antonia Arslan