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Fiore, il mistero di una vita

​È morto Fiore, mio compaesano, vicino di casa, aveva 89 anni. È morto in estrema solitudine così come aveva deciso di vivere. Un segnale inequivocabile ci ha allarmati e obbligati ad abbattere la porta di casa. In una piccola comunità si può imparare ad aver cura di tutti con il rispetto e la discrezione che merita ogni scelta. Il giudizio delle azioni spetta agli uomini ma il giudizio sugli uomini è rimandato a Dio.
Asociale oltre misura, se devo concentrare la sua vita in una sola parola scelgo: parsimonia. Far con poco. Già nella prima scelta che lo riguardava non si fece sfoggio di gran fantasia: Fiorini il cognome, Fiore il nome. Indisponibile alla carità spicciola, non accettava alcun aiuto di alcun genere.
In una economia di sostentamento delimitata da una casa, un orto, il bosco, le montagne, lavori saltuari e occasionali finché possibile e la pensione nella vecchiaia, non gli mancava niente. Vedendolo sporco e trasandato non era difficile immaginare di alleviare la sua impresentabilità con piccoli doni ma finivano irrimediabilmente nella spazzatura. Godeva di un innato senso estetico ed era elegante nella sua stracciatura. Un sorriso, due parole formali, un passaggio in macchina all’occorrenza, erano visibilmente graditi. La sua asocialità non mitigata da una comunità naturale, vicinato e paese, lo avrebbe costretto nelle maglie della pubblica assistenza, lo avrebbe forzato alla categoria del disagio psichico e lo avrebbe travolto. Vivere e morire in pace, per quel che si può, è il dono reciproco che ci siamo fatti, la comunità e Fiore. Non sembri poco, non lo è.
È il mistero del vivere ad attrarre ogni mio interesse e ogni mio interesse vi si rispecchia, vi trova giustificazione o motivo di consolazione. È alla storia, il succedere degli avvenimenti, il mutare delle situazioni, il permanere dell’ignoto e dell’indicibile, che torno, pressato dalla necessità di far fronte al presente. Non è una opzione ideale, non corrisponde ad alcuno stimolo sociale, è una necessità carnale e materica riflessa nel paesaggio, scolpita e dipinta, assemblata nelle architetture rurali, civili e religiose. Nutrita di poesia, letteratura. Di silenzio e di preghiera.
È il passato ciò che posseggo, il presente è il tempo che mi è concesso, il futuro arriva e mi troverà comunque impreparato. Il mio aiuto, la mia sola forza, sta nell’essere radicato. Una famiglia, una comunità, una terra, una lingua, una religione. Usanze, costumi, modalità dell’essere e dei comportamenti.
Un ciclo storico finisce, lo sradicamento è il presupposto per accedere alla mutazione in atto: lo ha imposto l’economia, lo sostiene la politica, la socialità lo rende doveroso, la cultura lo confeziona promettente e affascinante. Un appagamento contabile e consumabile, senza legami che non siano scelti, occasionali e a scadenza.
Vanificate la geografia e la storia, concentrati lo spazio e il tempo, resta il virtuale ad accendere l’immaginario e l’artificiale si impone come unica realtà accettabile, soddisfacente. È difficile comprendere o anche solo delimitare la mutazione sociale, umana, in cui siamo immersi e travolti, ma piccoli accadimenti possono illuminarne tratti. Tra mancanza e speranza è lo spazio del vivere sui monti in questo tempo.

di Giovanni Lindo Ferretti