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Gloria Campaner Sulla soglia con Monet e Beethoven

​Un frullio di ali. Di una libellula o di una farfalla. «Un attimo in cui non sei più terra, ma non sei ancora aria». Gloria Campaner lo avverte risuonare qui il suono del sacro. In un non-luogo. «Meglio, in un passaggio di stato, come accade con la materia, nel passaggio dallo stato liquido a quello gassoso, ad esempio, se pensiamo all’acqua». Una nuvola di vapore. Un frullio di ali. «Che ha la stessa vorticosità dei trilli, quasi impossibili da eseguire, della Sonata n. 32 in do minore, Op. 111, di Ludwig van Beethoven» racconta la pia­nista di Jesolo. «L’ultima sonata scritta dal compositore che poi affiderà la sua musica e la sua ricerca solo ai quartetti. Un testamento spirituale, certo non voluto e non pianificato dal compositore. Che ha la forza delle grandi opere della vecchiaia. E che ha la potenza immaginifica delle grandi opere incompiute, come la Sagrada Familia di Gaudí, un discorso lasciato volutamente aperto» riflette Gloria Campaner.
«Una fine, certo, perché l’Opus 111 è una delle grandi opere del finire della vita – ma questa definizione non implica per forza che poi arrivi la morte – che i geni dell’arte ci hanno lasciato. Ma soprattutto un inizio. Che avverto proprio in quel frullare di ali in cui non hai più la stabilità della terra, ma non hai ancora conquistato la libertà dell’aria» dice la pianista. Beethoven mette questa sensazione nella sua ultima sonata. Due soli movimenti, uno michelangiolesco «e uno piccolo, minuto, che il compositore con una grande umiltà chiama Arietta. Un tema con variazioni che tocca vertici spirituali inarrivabili. Enigmatico, di grande difficoltà interpretativa ed esecutiva», spiega ancora la musicista veneta che fino ad oggi non ha mai proposto la pagina in pubblico: «La suono in solitudine e mi lascio travolgere da quel senso di sospensione, di sublimazione e di dipartita di cui è pervasa».
Un tema, quello dell’Arietta, «per nulla ritmato, che non è certo ciò che ci aspetteremmo associato a una tale definizione, Arietta, appunto. Una musica che fotografa una fase della vita stanca e che è un cercare nella stanchezza, ma anche un andare ai limiti della tastiera, uno spingersi all’estremo quasi per sentire ciò che Beethoven non poteva più sentire a causa della sordità. Un gesto perfetto, compiuto, in cui c’è tanta poesia». Beethoven, riflette Gloria Campaner, in questa pagina «guarda in avanti e gli piove addosso il futuro, il futuro della musica che verrà dopo di lui e che qui è già anticipata. Ed è come se il tempo non fosse più lineare, ma ci offra, in questa Arietta, un “ricordo di futuro”».
Una partenza. «E mi viene in mente la sensazione di un paracadutista che sta per lanciarsi o di un surfista che cerca l’equilibrio cavalcando l’onda». Perché, «come diceva Beethoven, che voleva spingere oltre i limiti i propri sensi annebbiati dalla sordità, la musica è il mediatore tra lo spirituale e la vita sensuale». Una partenza. Ma anche un ritorno. Un ritorno a casa. A qualcosa di conosciuto e rassicurante. Dopo un volo, come per una libellula, una farfalla o un paracadutista. «E mi viene in mente il tour di addio di Sylvie Guillem, la grande ballerina francese che nel 2015 si è ritirata dalle scene. Bye. Life in progress del coreografo Mats Ek, l’assolo scelto per la sua ultima esibizione, era proprio sulle note della Sonata n. 32 in do minore».
Una variazione sul tema, l’ultima sonata di Beethoven. «Come una variazione sul tema sono le Ninfee di Claude Monet, un’altra grande opera della vecchiaia. Lo stesso fiore, dipinto in tantissimi modi diversi. Anzi, il ricordo di quel fiore perché Monet si fa un giardino di ninfee, le osserva, le studia e poi si chiude in uno studio e dipinge il ricordo di quello che ha visto. E se Beethoven non sentiva, lui non vedeva quasi più nulla» dice la pianista. Rintracciando un altro «spingersi al limite attraverso un’immaginazione che va oltre il non dipingibile, oltre il non suonabile». Per (ri)trovare il sacro e consegnarlo al futuro.