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Il caldo abbraccio di San Gaetano

​Antonia Arslan

C’è una chiesa di fronte a casa mia: ed è una chiesa speciale. Non è parrocchia, non è sempre aperta, e non è sempre facile indovinarne gli orari. Veramente c’è ogni giorno una Messa alle 8 di mattina, ma - tiratardi notturna come io sono - non mi riesce proprio di frequentarla a quell’ora; anche se il mercoledì, e solo quel giorno, viene celebrata all’una (e quella invece mi va benissimo...).
Tutti la chiamano chiesa di San Gaetano, ma in realtà è dedicata ai Santi Simone e Giuda, le cui statue compaiono nelle nicchie della facciata: quando alla mattina apriamo le finestre essi sono là, benevoli e imponenti, a vegliarci e a proteggerci, da sempre. Questa era la casa di nonno Yerwant, l’armeno venuto dalla Piccola Città, Kharpert, al centro dell’Anatolia. Là c’erano le fertilissime “pianure dorate” dai mitici raccolti, dove l’uva, diceva il nonno, aveva grappoli così grandi che bisognava appenderli a un bastone, e per rubare un melone si doveva usare una carriola...
È bello vivere davanti a una chiesa, col suo piccolo sagrato raccolto, più alto della strada, da cui è separato da tre alti gradini di pietra; spesso vi si siedono ragazzi con la bibita e il panino. L’altro ieri era una giornata di sole cristallino, un novembre inoltrato che sembrava primavera. I santi pareva che sorridessero, bagnati dalla luce. In cinque stavano appollaiati sul gradino più alto, tre maschi e due femmine, chiacchierando. Li ho chiamati dal poggiolo; passavano poche auto, nella tranquillità meridiana, e ci siamo parlati, con quella confidenza improvvisa che si stabilisce qualche volta, quasi a nostra insaputa, se ascoltiamo la voce serena del cuore.
Così, mi hanno raccontato che venivano da diverse cittadine della provincia, per un corso di aggiornamento che sarebbe continuato nel pomeriggio; che si godevano il sole, così caldo in quell’angolo di città, ma erano anche curiosi e interessati alla prossima lezione; e finirono per parlarmi delle loro famiglie e dei loro progetti di vita. Sono scesa in strada e gli ho offerto un caffè al bar di fronte; poi li ho salutati con un po’ di malinconia. Ma in quel preciso momento il grande portone centrale di San Gaetano si è aperto, come un tacito invito.
E dentro, circondata da quell’ombra amica, mi aspettavano gli struggenti ricordi. Il funerale di nonno Yerwant e il matrimonio di zio Nubar, quando per la prima volta sentii le potenti voci delle liturgie armene. La piccola figura di don Piero Zaramella, protettore di quel luogo sacro, combattente indomito contro l’ignoranza facilona che voleva spogliarlo dei bellissimi arredi secenteschi, che si incantava coi suoi occhi miopi a guardare la cupola affrescata. Papà Khayel e mamma Vittoria a Messa la domenica mattina, e il mio fratellino Edoardo che si piazzava sulla porta, quando necessario, per le collette straordinarie per la manutenzione della chiesa, e non lasciava passare nessuno senza che desse qualcosa, mettendo in mostra la sua gambetta malata.
E poi la meravigliosa sagrestia interna, con i suoi alti armadi intarsiati di colonnine di marmo, dove don Piero diceva la Messa invernale e ci ascoltava tutti col suo tranquillo sorriso; e - oggi - l’amico don Roberto, che ama gufi e civette e consola gli esseri umani.