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Il cieco nato e il bisogno di trovare la luce vera

​Maria Gloria Riva

Nel Vangelo di Giovanni il cieco nato è un testimone chiave. Siamo, infatti, al capitolo nove e, se si escludono gli episodi della risurrezione, la guarigione del ragazzo cieco si colloca esattamente a metà del testo giovanneo. In questo capitolo le coscienze si svelano e, mentre gli occhi del cieco si aprono, si palesano anche le posizioni del cuore umano rispetto alla luce vera che è Gesù. L’episodio suscitò grande interesse nell’epoca della Controriforma, per quella necessità che la Chiesa ebbe di indicare ove fosse la luce vera. Non a caso El Greco dedicò ben tre tele a questo episodio, diventando così interprete privilegiato delle istanze della Chiesa del suo tempo.
La tela custodita oggi a Parma fu dipinta da Domenikos Theotokopoulos, vero nome dell’artista cretese, nel 1573 durante il suo breve soggiorno romano. El Greco dopo un percorso da iconografo, come era d’uso fra i pittori di Creta, si era trasferito a Venezia. Qui, date le strette relazioni fra la Repubblica e i cristiani d’Oltralpe, avvertì la conseguenza drammatica della scissione fra cattolici e protestanti; drammaticità meno evidente nell’ambiente romano, soprattutto quello delle famiglie nobili come i Farnese, strettamente legate al papato. Proprio i Farnese sembrano essere i committenti della tela di Parma.
Gesù ci viene incontro mentre poggia la mano sugli occhi del ragazzo cieco. Lo spazio scenico, a differenza delle precedenti versioni, si amplia a dismisura grazie alla prospettiva vertiginosa priva di interruzioni, che si perde nell’orizzonte. Le forme classicheggianti degli edifici raccontano il desiderio da parte della Curia romana di affermare con solennità e certezza la propria fede.
Alla solenne compostezza delle architetture fa riscontro l’agitarsi dei personaggi in scena. A destra vediamo i discepoli preoccupati nel dare risposte umane al dolore: «Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Qual è la responsabilità dell’uomo nel peccare?» Tali questioni, che avevano tormentato la coscienza di Lutero, non sono distanti dalle domande del­l’uomo contemporaneo.
Gesù, il cui volto è il punto più luminoso del quadro, a occhi bassi guarda il cieco in profondità: egli solo vede nel cuore dell’uomo. A sinistra una figura di spalle indica qualcosa. Simile nell’abbigliamento al cieco nato, costui è per alcuni l’altro cieco di cui narra l’evangelista Marco. Per altri, invece, è un personaggio enigmatico teso a distogliere l’attenzione dei presenti dal miracolo: così El Greco avrebbe denunciato l’opera di demitizzazione avviata dai protestanti. Eppure questa figura di spalle, espediente non raro nella Rinascenza, potrebbe avere il compito di commentare la scena suggerendo alla stessa ulteriori significati. Costui potrebbe essere lo stesso cieco che, dopo la guarigione, risponde alle domande incalzanti della folla, invitandola a non perdersi in questioni ininfluenti, ma a guardare in alto. Personaggi riccamente vestiti, in alcuni dei quali si riconoscono membri della famiglia Farnese, obbediscono all’invito.
Questo punto di vista “alto” è quello di Cristo: né lui né i genitori hanno peccato, egli è così perché si manifestassero le opere di Dio. Gesù cioè, rifiuta la teoria della retribuzione, secondo la quale ogni sofferenza era causata da un peccato proprio o dei propri genitori, ma aiuta a guardare le situazioni con lo sguardo stesso di Dio. Ieri come oggi, nel dolore si manifesta l’opera di Dio. Solo nell’ora della croce e della risurrezione, dolore e morte troveranno senso e risposta.