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Il dolore innocente e l’equilibrio del mondo

​Ero giovane, al mio primo impiego. Sostituii un collega in un turno volontario di assistenza a un malato terminale. Non ero pronto, non si è mai pronti. Mi ritrovai al capezzale di Claudia, una ragazzina di cui non sapevo nulla, impietrito davanti a un dolore assoluto. Innocente. Mi avevano detto che era la fine di un’agonia, le sue ultime ore, dovevo e volevo crederlo. Durò due settimane. Entrai, in silenzio, in un turnover che coinvolgeva molte persone. Non parlammo mai, scarne consegne di bollettini medici. Ci passavamo l’un l’altro l’indicibile. C’erano attimi di pura grazia. Il corpo fisico di Claudia si stava ritraendo deformandosi. Durante le crisi, gli attacchi del male che scandivano le ore, i suoi occhi riuscivano a comandarmi piccoli gesti: spostarle un braccio, un piede, alzarle il mento, asciugarle il sudore, un contatto carezzevole.
Claudia apriva gli occhi e una infinita dolcezza mi trapassava trasfigurando la mia incapacità, la mia inutilità. Sorridevo anch’io, per riflesso rapito, e prima che i miei occhi si gonfiassero di pianto incontenibile lei aveva già richiuso i suoi e montava la mia rabbia, un cieco furore contro tutto e tutti. Contro Dio, l’ingiustizia del mondo, del vivere. Cominciavo a sperimentarne la complessità, l’intrinseca tragicità che non può vanificarne la meraviglia.
Sono vecchio, uno di questi strani vecchi di oggi. Non si sa cosa sono, a che servono, non si sa come chiamarli ma quando si sono cumulate stagioni su stagioni, e magari se n’è tratto anche qualche beneficio, dichiararsi ed essere accettati vecchi è un dovere, forse un piacere. Tragicità e meraviglia del vivere hanno segnato le mie stagioni, sempre irriducibili, sempre insolubili. Per fuggire a un crescente disagio sociale e culturale ho vissuto questo ultimo decennio procedendo a ritroso. In viaggio verso la mia infanzia e l’infanzia del mondo che mi ha generato.
Da metropolitano cosmopolita vincente a rurale montano perdente. Ne ho guadagnato, da ogni punto di vista. Una casa, una stalla, una comunità, un quotidiano operare. Un procedere tra mille difficoltà di ogni ordine e grado e relative soddisfazioni. Nel momento in cui tutto sembrava aver trovato forza ed equilibrio, la morte improvvisa di Davide ci ha piombato in uno stadio sospeso e brancolante. Chiude una casa, sfuma una giovane famiglia, viene a mancare un tassello essenziale di una economia di paese. L’irruzione della tragedia. Un perverso effetto domino mette a rischio tutto ciò di cui eravamo così felici. Non eravamo pronti, non si è mai pronti.
Nessuno può accollarsi il dolore del mondo, il dolore del vivere, ognuno costretto al proprio nel proprio tempo. La vicinanza, la compassione, il rispetto, la pietà, risultano poca cosa ma trasfigurando la dura realtà danno corpo e anima a una esperienza, a una comunità, a quel senso di meraviglia e di timore per il mistero in cui siamo immersi. Un mistero che incrociamo quotidianamente per strada, entra nelle nostre case, frequenta i luoghi che noi frequentiamo, visita i nostri sogni, arte e cultura ne sono determinati in positivo e in negativo. È il mistero della vita. Una madre con un figlio al seno è già segno premonitore di una croce. Se c’è un senso, una salvezza, non può che passare da lì: dall’incarnazione, dalla croce.