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Il mondo nuovo visto dal mare

​Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento l’immagine occidentale della Terra venne rovesciata come un calzino. Prima, il mondo abitato e conosciuto (l’ecumene degli antichi Greci) era immaginato come un’isola circondata dall’anello dell’Oceano tenebroso. Dopo, sono invece i mari, divenuti interni, a trovarsi circondati dalle terre emerse, nel frattempo scoperte dai naviganti. Non è un caso che nel 1516 Thomas More attribuisca al racconto di un marinaio la descrizione del paese di Utopia. E il mondo concepito in funzione della navigazione è molto diverso dall’idea che se ne ha dalla terraferma: una contrapposizione di cui ancora un secolo fa restava traccia, ad esempio, nel pensiero di Joseph Conrad, per cui il mondo andrebbe molto meglio se a governarlo fossero gli uomini di mare piuttosto che i terrazzani.
La proiezione cartografica di gran lunga più famosa fu pensata proprio per la gente di mare. Tecnicamente è una proiezione cilindrica isogona a latitudini crescenti. Essa prende il nome dal suo inventore, Gerhard Kremer detto Mercatore, un umanista fiammingo che nel 1569 pubblicò in Germania, a Duisburg, una mappa del mondo in diciotto fogli, lunga due metri e alta un metro e trenta centimetri: la Nova et aucta orbis terrae descriptio ad usum navigantium emendate accommodata, cioè una “nuova, corretta e ampliata descrizione della Terra ad uso dei naviganti”. Per comprenderne la natura bisogna pensare che le distanze nautiche vengono calcolate in base a linee chiamate lossodromiche, termine che deriva da due antiche parole greche che messe insieme significano “percorso obliquo”. Sulla sfera che è il nostro pianeta, la distanza da un punto all’altro non è mai in realtà rettilinea ma sempre curvilinea, e dal punto di vista geometrico corrisponde al segmento di una spirale che si svolge in direzione di uno dei due poli, proprio perché la superficie terrestre è di forma sferica. Perciò la violenza geometrica che consiste nel rappresentare tale percorso su una superficie piana produce un paradosso al cuore dell’arte marinaresca: la costanza dell’indicazione che proviene dalla bussola non combacia con una rotta che segua una linea retta. Mercatore risolve proprio tale problema, raddrizzando sulla carta il tracciato delle lossodromie, e rendendo in tal modo molto più agevole e spedita la navigazione, la cui direzione può essere in tal modo calcolata una sola volta per tutte, perché l’angolo del naviglio rispetto ai meridiani rimane costante, fatta salva la declinazione magnetica. Per far questo però il modello cartografico deve consapevolmente alterare in forma inedita il complesso dei lineamenti terrestri, distorcendoli come mai prima era stato fatto, a motivo dell’irriducibilità (in termini topologici, cioè matematici) tra la tavola e la sfera. Per trasformare quel che è storto in diritto, cioè la rotta da seguire, per trasferire insomma la pratica del mondo dal globo alla mappa, Mercatore accresce i gradi di latitudine, vale a dire la distanza tra un parallelo e l’altro, a misura che dall’Equatore si scenda o si salga verso i poli. In tal modo l’estensione del continente europeo, ad esempio, risulta proporzionalmente il doppio di quella vera, se confrontata con quella dei paesi nordafricani. E anche se Mercatore intendeva la sua rappresentazione come esclusivo ausilio per la navigazione, gli stessi marinai avevano per tal via i loro problemi: pur mantenendo le proprie relative proporzioni le stesse coste erano ad esempio raffigurate, alle più alte latitudini, molto più sviluppate di quanto in realtà non fossero.
In altri termini: la mappa di Mercatore è cruciale per la costruzione della modernità perché al suo interno la riduzione della faccia della Terra a un unico ambito regolato dall’equivalenza generale supera l’ultima problematica soglia, quella che decide della relazione tra la logica (che è quella dello spazio) e la sintassi (che è quella della rettilinearità). Dilatando in maniera crescente verso i poli l’intervallo tra i paralleli, Mercatore sacrifica l’unicità della scala, che è l’indicazione del rapporto che esiste tra le distanze lineari nella realtà e quelle sulla mappa, e la cui unicità è il sigillo di ogni costruzione spaziale. Ma tale sacrificio serve ad affermare la presenza di astratte ma potenziali linee diritte, a chiamare all’esistenza e moltiplicare all’infinito il fondamentale agente da cui, prima ancora, la produzione di ogni spazio dipende. Sanzionando in tal modo in via definitiva la riduzione del mondo a tempo di percorrenza, riduzione che della logica spaziale è il motore.