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Il sorriso di Francesco, ragazzo venuto dal Sud

di Antonia Arslan

​Lo incontrai per la prima volta nella piazza vicina al mio liceo, davanti alla Tomba di Antenore fondatore di Padova, con le sue quattro colonnine che sorreggono il sarcofago muschioso, luogo di appuntamenti e di chiacchiere per noi studenti, anche perché stava proprio di fronte a un bar molto apprezzato.
Aveva un gran sorriso e una stretta di mano forte, avvolgente. Si presentò dicendo: «Sono Francesco, terrone», suscitando immediatamente la mia reazione di simpatia e di curiosità. Era tarchiato e robusto, e divenne ben presto una delle persone che mi ispiravano più serenità e fiducia: c’era sempre, non alzava la voce, ti studiava con gli occhi socchiusi e non parlava mai troppo. Nella nostra compagnia si inserì benissimo: distribuiva taralli e olive preparati da sua madre e dalle due sorelle, era il primogenito di cinque – tre maschi e due femmine – come me, studiava medicina e aveva tutta l’intenzione di stabilirsi a Padova, anche se raccontava volentieri della sua terra pugliese.
Pochi mesi dopo si fidanzò molto seriamente con Marta, la mia amica del cuore. Li incontrai un giorno a passeggio insieme e me lo dissero con aria buffa, come se fosse una scoperta che avevano appena fatto, quella di voler stare insieme per tutta la vita. Ricordo ancora che ne fui sorpresa e un po’ ingelosita, perché Marta non mi aveva raccontato niente; ma mi ero appena innamorata di brutto anch’io, ed ero piuttosto concentrata su questa scoperta. Da allora, Francesco e Marta ci sono stati sempre, hanno accompagnato tutta la mia vita. Siamo cresciuti insieme, anno dopo anno, scoprendo il mondo e le cose del mondo, discutendo in innumerevoli cene, confrontando gusti e capricci, allevando figli e case. Ma la prima pietra davvero solida della nostra amicizia furono i viaggi alla scoperta della Puglia che facemmo in quelle estati lontane. Lui si chiamava Ostuni e veniva da Monopoli, e andare laggiù mi attraeva come un canto di sirena. Il primo anno fu grandioso: c’era allora a Monopoli un solo albergo, che offriva solo il pernottamento, a prezzi molto modici; e un solo ristorante, con un menu essenziale ma ingredienti squisiti, dove non mancavano mai mozzarelle sontuose e il pasticcio con le polpettine di carne una volta alla settimana.
Ci restammo un mese, godendo dell’ospitalità generosa e dolce della famiglia del nostro Francesco, facendo colazione al caffè della piazza centrale con le mezzedonne di mandorle e amarena, festeggiando la Madonna di Ferragosto con meravigliosi fuochi d’artificio. Andavamo al mare la mattina, scoprivamo le cattedrali, i castelli, le città bianche nel pomeriggio, accompagnati da uno dei fratelli o da un loro gentile amico che sognava di stabilirsi nel Nord, possibilmente a Mestre, che gli pareva la città del futuro. Ancora ricordo come ci portava con pazienza a vedere meraviglie pugliesi come Trani, sempre ripetendo che non capiva perché, avendo Mestre a disposizione, potessero interessarci quelle anticaglie.
Per tutta la sua vita Francesco fu un medico, un pediatra straordinario. Aveva intuito e pazienza, e tutti lo amavano. E quando sua moglie s’impuntava un po’ troppo, lui mi strizzava l’occhio e sussurrava: «Noi saremo terroni, ma abbiamo certe sapienze...», e io ricambiavo, contenta dell’antica fraternità fra pugliesi e armeni.