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Impressioni di Spagna

La Spagna per me era un miraggio dorato immerso in una foschia lontana, una terra aspra e dai panorami sconfinati, con cavalli e cavalieri solitari, alberi immensi e strade polverose. Mi immaginavo i vasti pianori della meseta centrale, con villaggi isolati e osterie austere, e le luminose città del sud dai nomi affascinanti: Cordova, Siviglia, Granada...
Tutto partì dal fatto che a undici anni mi ero innamorata di due poesie di García Lorca, riprodotte in un giornalino per ragazzi. Forse erano state scelte per la loro brevità impressionistica, ed effettivamente mi impressionarono molto: «Tre pioppi immensi / e una stella...», diceva la prima, Tarde (Sera), che finiva con una «morettina di Granada», e queste immagini non le ho più dimenticate: la sera, gli alberi, la stella e la ragazza mora composero nella mia mente un affresco spagnolo in poche limpide pennellate. Ma la seconda, Cazador (Cacciatore), la imparai subito a memoria. Mi parve che unisse con pochi brevi versi essenziali la vita e la morte in un quadro perfetto, e mi ha sempre confortato come una rassicurante, sobria lezione sul mistero della fine delle cose: «Alta pineta! / Quattro colombe volano e tornano. / Alzano ferite / le loro quattro ombre. / Bassa pineta! / Quattro colombe giacciono a terra».
Il movimento e la vita delle quattro colombe, il cacciatore che le uccide ma non compare nei versi (c’è soltanto nel titolo allusivo e terribile), l’aria mossa e la terra dura su cui muoiono gli uccelli feriti, i pini altissimi attraversati dal volo orizzontale degli uccelli, come a formare una croce; e poi i colori nitidi, il verde e il bianco che non sono descritti, ma si vedono attraverso il movimento orizzontale e verticale, mi lasciarono un’eco profonda nella mente, simbolo e immagine di come vita e morte siano vicine, si sfiorino sempre con un frullo d’ali palpitante che le lega in reciproca necessità.
Poi lessi tanto altro Lorca, seguii Don Chisciotte nel suo strologare allucinato e sapiente, mi piacquero Goya e Unamuno, feci amicizia con una ragazza di Valencia, dalla quale imparai lo spagnolo di vecchie appassionate canzoni: e sempre mi tenevo stretta questa mia privata idea di Spagna, forse un po’ libresca ma che toccava in me profonde corde emotive.
Molti anni dopo andai finalmente con mio padre a Madrid. Era una primavera avanzata; mio padre partecipava a un congresso medico, mia madre e io giravamo per la città. Ci portarono al Prado e a Palazzo Reale, e un giorno a Toledo, città che mi parve oscura e piena di presagi; ci portarono a una corrida, con i costumi scintillanti dei toreri e la fine dei tori ritualizzata come nelle antiche danze riprodotte sui vasi cretesi. La sera si mangiava molto tardi, e una volta vedemmo anche un flamenco.
Questa era l’impressione che la Spagna voleva dare di sé: e mi parve l’aspetto brillante e passionale – e magari anche un po’ ironico – di una nazione ferita, che proteggeva così dall’occhio straniero le piaghe ancora aperte delle lotte senza quartiere che l’avevano dilaniata, della lunga secolare decadenza che aveva trasformato un enorme impero in una nazione povera e isolata. Ma poi mi dissi che era forse anche il segno di un orgoglio fiero e coraggioso, e mi ricordai il linguaggio spavaldo e visionario di quelle nitide poesie di tanti anni prima.

di Antonia Arslan