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L'oasi di Tesar nel quartiere senza identità

A Vienna, appena oltre lo scorrere del Danubio, in una recente urbanizzazione con un centro di attività terziarie (torri di uffici, centro congressi, una sede per le Nazioni Unite, stazione della metropolitana, residenze e negozi...), un concorso di architettura ha portato alla realizzazione della “Donaucity Kirche”, posta ai lati di una nuova piazza circondata, come spesso avviene di questi tempi, da insediamenti edilizi “senza arte né parte” con le più bizzarre tipologie, dettate dagli appetiti della nuova speculazione fondiaria.
L’ingrata scommessa è stata affrontata e vinta con maestria e sensibilità dall’architetto austriaco Heinz Tesar (1939), uno dei più bravi interpreti di questa generazione, un costruttore ancora capace di attuare una sintesi progettuale fra l’eredità millenaria di un mestiere nobile e la disarmante povertà dell’attuale condizione urbana, ridotta sempre più a un anarchico ammasso di volumi edilizi.
Heinz Tesar inserisce, su di un lato della piazza pedonale, un volume cubico rivestito con pannelli di ferro nero, che diviene punto di riferimento rispetto alla frammentarietà e al disordine dell’intorno. L’edificio dichiara immediatamente la sua funzione di aula assembleare per le dimensioni e per l’intrigante presenza sulle facciate di una trama regolare di finestrelle circolari che portano all’interno dello spazio un sistema di luci puntiformi. All’esterno, dalla piazza, appare inoltre a mezza altezza della facciata una croce di luce che svela la funzione dell’edificio.
La chiesa, dedicata a Cristo Speranza del Mondo, si presenta semplice e severa all’esterno; complessa, ricca e sorprendente all’interno, con una sapiente manipolazione architettonica che sottolinea la preziosità dell’intervento. La planimetria disegna un unico spazio quadrilatero leggermente allargato, con un orientamento sud-nord lungo una linea diagonale. Lo spazio interno, configurato come un’unica aula a doppia altezza, sorprende per la trama delle finestrelle circolari disseminate sulle pareti dal pavimento al soffitto. Malgrado le dimensioni ridotte delle aperture, esse assumono un valore di filtro, un diaframma che relaziona l’interno con l’esterno.
La parete absidale del presbiterio presenta, negli angoli in alto, due rientranze vetrate dalle quali entrano – al mattino e al pomeriggio – fasci di luce che disegnano traiettorie variabili su di essa. La geometria delle luci sulle pareti e il raffinato rivestimento in legno concorrono a modellare con grande complessità lo spazio, fra luci e ombre. La qualità dell’ambiente interno viene esaltata attraverso un differente registro linguistico con la disposizione a cerchi concentrici dei banchi per i fedeli.
Lo spazio unitario dell’aula, fortemente disegnato dal susseguirsi dei piccoli oblò perimetrali, accoglie i differenti arredi liturgici. È a partire dalla geometria centrifuga dei banchi che si apprezzano la qualità spaziale e l’atmosfera sacrale della chiesa.
L’architettura di uno spazio religioso, al di là delle mansioni liturgiche e della partecipazione dei fedeli, custodisce fisicamente un rito che appartiene alla storia dell’uomo, segno di una cultura che si trasmette nel tempo. Questa piccola chiesa, nata in un contesto urbano non certo edificante per le nostre forme espressive, è da apprezzare come testimonianza di resistenza rispetto alla banalizzazione e all’appiattimento che sempre più connotano la vita del nostro tempo.
La costruzione dello spazio del sacro, come è avvenuto durante una storia secolare, riesce ancora a sorprendere per la qualità che esprime e per la dedizione di chi vi è coinvolto.

di Mario Botta