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La Madonna di Dürer che viveva in convento

​Un’incredibile storia, quella della Madonna del Patrocinio di Dürer, una storia che affonda le sue radici nella scelta radicale di una giovane del XVII secolo. Isabella entrò nel 1621 presso le clarisse di Bagnocavallo prendendo il nome di suor Dorotea. Il padre, Giovan Filippo Certani, le diede in dote un piccolo quadretto votivo di grande valore. Suor Dorotea pensava fosse opera di Guido Reni e si innamorò a tal punto di quella Vergine col Bambino da pregarla per ogni necessità. Per le tante grazie ottenute per suo mezzo, questa Vergine fu chiamata “Madonna del Patrocinio”. Soltanto nel 1961 trapelò la notizia che le clarisse di Bagnocavallo custodivano un piccolo capitale: uno dei cinque dipinti che il grande maestro tedesco Albrecht Dürer, come egli stesso narrò in una lettera scritta all’amico Willibald Pirckheimer, vendette per pagarsi il soggiorno italiano. La cosa non fa meraviglia: il padre di Isabella, oltre a essere commerciante di seta, era un collezionista e fondatore dell’Accademia dei Selvaggi la quale, fra i suoi membri, annoverava Guido Reni e Annibale Carracci. Nessun dubbio, quindi, che potesse acquisire dipinti di quel calibro.
Vari indizi stilistici e pittorici inducono a collocare questa tavoletta fra il primo e il secondo viaggio italiano di Dürer; altri, anche a causa di un disegno preparatorio con la copia del Gesù Bambino di Lorenzo di Credi, portano fino al 1495, epoca del suo primo viaggio in Italia. Sul dipinto furono operati pesanti interventi, uno dei quali, il perizoma imposto a Gesù Bambino. Oggi l’opera, riportata al suo aspetto originale, incanta per la finezza pittorica e per l’interessante simbologia. Il Cristo Bambino volge un intenso sguardo alla Madre la quale appare, invece, pensosa e mesta, presentendo, come vuole santa Brigida, il supplizio della croce. Della Passione, del resto, parlano le fragole che il divino Infante tiene nella mano destra. La fragola per il suo succo color rubino rimanda al sangue sparso dal Redentore, mentre le sue proprietà, ritenute afrodisiache, ne fanno un simbolo del peccato originale. Fu questo peccato che il Cristo venne a cancellare; la Madre ne intuisce drammaticamente il prezzo e trattiene, quasi a proteggerla, la mano di Gesù.
L’insolito sfondo ad arcate, con una lama di luce che si riflette sullo stipite della porta, è denso anch’esso di rimandi. Se lo stipite allude al sangue dell’antico Agnello pasquale, l’arcata segna l’accesso a quel­l’Hortus conclusus che per l’offerta sacrificale del Cristo si riapre all’uomo. A indicare ciò ecco sullo scranno, ove siede la Vergine Madre, un pomello a forma di carciofo. L’ortaggio, a forma di pigna e spinoso, evoca il Cantico dei Cantici: come un giglio fra i cardi è il mio diletto. Le spine dell’ortaggio dicono come Cristo, con la sua Passione, ci ha meritato l’eternità, simboleggiata dalla pigna. Egli, dunque, nella sua nudità è il giglio purissimo della carne redenta.
Il messaggio della tavoletta è chiaro: il patrocinio della Vergine si esplicita nell’ostensione del Figlio, il quale con la sua Incarnazione, passione, morte e risurrezione, ha elargito agli uomini il grande dono del Paradiso. Con tale dono fra le braccia la Madre si fa carico di intercedere per tutti gli altri nostri bisogni, come testimonia la potente preghiera di suor Dorotea, secentesca proprietaria di questo prezioso dipinto.  L’opera, ora della Fondazione Magnani Rocca, è il cuore della mostra che il Mart dedica a Dürer.