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La camera fiamminga degli sposi

​C’è un quadro che è la rappresentazione più bella, più commovente del sacramento del matrimonio fra quante ce ne ha consegnate nei secoli l’iconografia cristiana. È il Ritratto dei coniugi Arnolfini custodito alla National Gallery di Londra, capolavoro, all’anno 1434, del grande caposcuola fiammingo Jan van Eyck.
Gli Arnolfini appartenevano a quella ristretta ricca e potente comunità di banchieri e di imprenditori italiani (i Portinari, i Tani, i Baroncelli, fiorentini e lucchesi per lo più) che nel XV secolo avevano aperto uffici e preso residenza nelle grandi città mercantili del Nord Europa, a Bruges, a Gand, a Londra.
Qui i due sposi sono rappresentati all’interno della loro camera da letto che è calda, confortevole (pavimenti in legno di rovere, broccati e velluti rossi nel talamo nuziale), ricca ma senza sfarzo, improntata a un sobrio decoro altoborghese. In piedi, vestiti nei lussuosi costumi consoni al loro rango e tipici del Paese che li ospita, i due sposi si danno la mano e offrono l’uno all’altra la promessa dell’amore condiviso.
Per van Eyck la camera degli sposi è uno spazio liturgico gremito di simboli che hanno tuttavia la sommessa feriale evidenza delle cose “normali” che accompagnano la nostra vita. Al matrimonio come sacramento alludono il cane e lo specchio che nel fondo della camera, con un prodigioso effetto di trompe l’œil, riproduce l’immagine miniaturizzata dei due protagonisti. Infatti il cane è simbolo di fedeltà e di purezza lo specchio, mentre la candela accesa nel lampadario è figura di Cristo testimone onniveggente.
Così Jan van Eyck dà immagine alla sacrale ritualità del matrimonio, il sacramento che ha negli sposi i suoi officianti. Ma il maestro fiammingo è un grande pittore della realtà, è il poeta della vita silenziosa, lo affascinano le cose inanimate e gli interni svelati dalla luce. Per lui (questo è il carattere distintivo della grande pittura fiamminga del Quattrocento) l’elemento unificante della visione è la luce. Non la prospettiva come pensavano e praticavano negli stessi anni gli italiani (Brunelleschi e Masaccio, Donatello e il Beato Angelico) ma la luce. È la luce a dare profondità e spessore, ombra e volume alle cose visibili, a restituirci l’evidenza tattile di un tessuto o di una pelliccia, a fare splendere il Vero, nello specchio anamorfico degli Arnolfini.
Ed ecco i prodigi della luce dentro il dipinto. La luce entra dalla finestra aperta sulla sinistra, svela i frutti depositati sul davanzale e sul ripiano del mobile, accarezza a una a una le pieghe della coperta del letto nuziale, ci fa scoprire le calzature da casa (pianelle rosse, accanto al letto, quelle della donna, in legno e cuoio nero quelle dell’uomo) che i due sposi hanno appena dismesso per vestirsi in modo conveniente al rito che stanno officiando.
E poi c’è il cane, un cagnolino peloso e vivace che sta in primo piano, accanto agli sposi come conviene a chi è, a tutti gli effetti, un membro della famiglia. Guardiamolo da vicino. È una creatura fremente di vita, consapevole del suo ruolo, orgogliosa dei suoi padroni. Chissà quante volte questo cane (indimenticabili i suoi occhietti vivi, pungenti) è andato incontro a Giovanni Arnolfini abbaiando e scodinzolando per la felicità, quante volte è saltato in grembo alla padrona per testimoniarle il suo affetto.
Così, in un quadro dipinto quasi sei secoli or sono, la vita e l’amore di un uomo e di una donna sono arrivati fino a noi, e guardarli mentre si danno teneramente la mano nella loro bella casa borghese, con il cagnolino che ci tiene a essere anche lui protagonista, ancora ci stupisce e ci commuove.

di Antonio Paolucci