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La canzone del tiglio

​Au branches claires des tilleuls / meurt un maladif hallali. / Mais des chansons spirituelles/ voltigent parmi les groseilles. / Que notre sang rie en nos veines / voici s’enchevêtrer les vignes… (Sui rami chiari dei tigli / muore un malaticcio richiamo. / Ma spiritose canzoni / volteggiano fra l’uvaspina. / Che rida il mio sangue nelle vene/ ecco aggrovigliarsi le vigne...): questi morbidi e molto ritmati versi di Rimbaud cominciarono a girarmi per la testa ossessivamente mentre guardavo lo splendido tiglio che sorvegliava - dal limite verso la strada - il cortile del bar Cueva, dove il barista latino-americano mi fece uno splendido cappuccino col cacao e la cannella: una mia recente, entusiasmante scoperta.
Eravamo a Sartena, frazione di Santa Giustina, nel bellunese. Quella Val Belluna dalle morbide colline, dove il Piave scorre nel suo greto sassoso, circondata dal protettivo anello di quelle cime lontane che si perdono così spesso in nebbie ovattate. A metà strada verso il mio rifugio di Campel Alto, altra periferica frazione dello stesso comune, l’elegante, evocativo nome di Sartena mi ha sempre ispirato. Ma non mi ero mai fermata in quel bar modesto, dall’insegna artigianale, un po’ nascosto dietro l’ampio spiazzo disordinato. Davanti però c’erano accoglienti tavolini all’ombra: era una giornata chiara e limpidissima, le cime risplendevano (soprattutto quella rosata del mio amato Monte Pizzocco), faceva caldo e avevo sete. In quella luce abbagliante d’agosto, prima di sedermi sentii come un caldo richiamo, e mi voltai verso il tiglio. Mi tornarono in mente, d’impeto, i versi successivi: Le ciel est joli comme un ange. / L’azur et l’onde communient. / Je sors. Si un rayon me blesse/ je succomberai sur la mousse... (Il cielo è bello come un angelo. / L’azzurro e l’onda comunicano. / Esco. Se un raggio mi ferisce/ Io morirò sopra il muschio...)
Mi ci cullai per un poco. E il tiglio divenne lo stesso albero amico del giardino della mia infanzia. Sentii la sua forza. Sentii il profumo intossicante dei suoi fiori e mi ritrovai seduta, appoggiata comodamente al tronco nel mio grembiule a scacchi con le tasche ricamate, esattamente al centro della sua cupola verdeggiante, a guardarla da sotto in su in tutta la sua ombrosa perfezione. E veramente in quel momento “il sangue rideva nelle mie vene” e il cielo mi pareva “bello come un angelo”, anche se nessun raggio, là sotto, poteva ferirmi, perché lui era uno degli alberi che riconoscevo - e amavo - come il carpino nodoso, il noce e il burbero castagno. Mi parve di sentire l’odore leggero e un po’ aspro del bersò di carpini piantato cent’anni prima vicino alla casetta dei nonni e ormai sfuggito verso l’alto, sicché le chiome si erano intrecciate a formare una cupola buia. Solo nonna Virginia ogni tanto tagliava qualche ramo basso, ma nessuna forbice di giardiniere esperto si era mai curata di potare quelli alti. I rami più bassi si erano addirittura fusi insieme, e ci si poteva arrampicare da un lato e percorrerli, scendendo dall’altra parte dell’anello arboreo. Un tavolo rotondo di pietra proteggeva, al centro, tutti i nostri giochi.
E poi vennero anche tutti gli altri: sentivo foglie stormire, un lieve profumo di ricordi - e intorno, onde di gioia.