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La capanna di Betlemme e la prima Chiesa

​La luce proviene dalla finestra centrale e da un lenzuolo, bianchissimo, che accoglie il corpo dormiente del Cristo Bambino. Il tetto a cuspide della capanna di Betlemme incornicia il panorama evocando il profilo di una chiesa. Lorenzo Costa il Vecchio, artista ferrarese allievo del grande conterraneo Ercole de Roberti, fu attento conoscitore delle tecniche fiamminghe e si formò alla scuola fiorentina del disegno e del colore. L’eleganza delle forme e della narrazione pittorica sono evidenti in quest’Adorazione del Bambino.
La prima chiesa della storia, la famiglia di Nazaret, tesse la sua esistenza entro un dramma: il Verbo dell’Altissimo, fatto carne nel grembo di Maria, è nato per morire. Così non fanno meraviglia i volti mesti dei due genitori, specie quello di Giuseppe le cui rughe, più che per la differenza di età con la Vergine Sposa, sono rese evidenti dal dolore. Maria, bellissima nel suo volto fanciullesco, ha gli occhi gonfi di lacrime. Ella si affida alla preghiera, mentre il suo cuore è dibattuto fra speranza e dolore, vita e morte. Con grande maestria Lorenzo Costa accorda i pensieri della Vergine al linguaggio del cuore, in particolare allo sfumato del manto che se da un lato riprende la consuetudine del tempo nel vestire la Madonna con un manto verde-azzurro, dall’altro introduce quelle ombre rosso sangue che narrano il presentimento circa la morte del Cristo. È la Vergine Madre di Betlemme, ma è già la Madre del dolore. Anche il suo divin Figlio appare, da un lato, placidamente addormentato come un qualunque infante e, dall’altro, deposto sopra un giaciglio fatto di rami intrecciati simili alla corona di spine che un giorno gli cingerà il capo. Piccole spighe dorate escono qua e là dal legno, simboli del frutto del sacrificio del Redentore: l’Eucaristia. Ma se il giaciglio annuncia già la sua passione e morte, il candido lenzuolo, seconda e vera fonte di luce del dipinto, promette la risurrezione del Figlio di Dio.
Il mondo appare incurante di tale dono. Il paesaggio, dal sapore fiammingo, meticolosamente descritto in una sequenza di piani, narra di scene quotidiane: il cavaliere e i viandanti proseguono indisturbati il loro viaggio, in città la vita continua con i suoi ritmi e sul mare brulicano attività di ogni tipo, volte alla sussistenza umana. I particolari non sono casuali. Con un gusto tutto toscano e quattrocentesco, il Costa vuole esprimere le coordinate principali della vita umana: la strada e la campagna, la città e il mare; ovvero il mondo, che prosegue nei suoi traffici come nulla fosse, incurante del fatto che il suo Creatore è qui, nato per morire. Solo Maria e Giuseppe rispondono adeguatamente al Dono di Dio. La Vergine contempla, serbando nel suo cuore il dramma del destino del figlio. Ella prega per tutti: per quelli che crederanno in lui e per quanti gli infliggeranno quei dolori sintetizzati nei simboli della tela. San Giuseppe, invece, incrocia le mani al petto, proclamando così il suo fiat. Egli, con il bastone in mano, incarna l’uomo viatore di ogni tempo educandolo alla sua stessa professione di fede: «Sia fatto ciò che Dio vuole e noi, pellegrini in questo mondo, si possa riconoscere l’opera di Dio».
Le dimensioni ridotte della tela rivelano l’uso cui era destinata: la devozione personale. L’anonimo committente desiderava certo condurre gli osservatori a meditare. Gesù, nudo, mostra la sua vera umanità: egli è uno di noi. A ben guardare non sta dormendo, ma volge verso gli osservatori uno sguardo mesto, indicando il suo giaciglio. Dove siete voi - sembra dire - rispetto al mio Mistero? Fra gli indaffarati e anonimi personaggi dello sfondo o con Maria e Giuseppe, attenti alla grazia divina che plasma, nel quotidiano, il disegno di Dio?